Anime allo specchio 

Serie: Le Porte dell'Inferno


Girò appena la testa, abbastanza da incrociare il mio volto. Gli occhi intrisi di paura e, nello sguardo, la rassegnazione di un condannato che percorre l’ultimo miglio. Quel leggero movimento mi fece capire che, almeno in parte, mi stava ascoltando. Forse stava tornando in sé; probabilmente si trattava solo di un riflesso, un gesto istintivo di approvazione. Aprii lentamente la portiera, senza aggiungere altro. La pioggia mi investì subito, fredda e pungente. Feci qualche passo verso il suo lato. Lei rimase ferma, persa nel suo mondo. Per un istante pensai che non si sarebbe mossa. Poi vidi la maniglia abbassarsi.

All’interno, il bar era quasi vuoto. Ordinai per entrambi. Lei rimase seduta, distante, come se si trovasse in un luogo irraggiungibile. Ogni tanto un tremito, un singhiozzo trattenuto. Mi resi conto che non potevo farcela da solo. Non quella notte. Non con lei. Avevo davanti due possibilità. Le dissi che non potevo fare altro che avvisare le forze dell’ordine o accompagnarla in ospedale, a meno che non fosse lei stessa a indicarmi cosa fare. Le concessi qualche minuto per decidere, per darmi un segno, qualsiasi cosa. Non so cosa si aspettasse da me, forse una soluzione. Ma cosa potevo offrire io, che non riuscivo nemmeno a prendermi cura di me stesso? Interpretai l’ennesimo micromovimento come un cenno d’approvazione. Feci per alzarmi, ma afferrò le mie mani di scatto, come per trattenermi.

«Aspetta… aspetta.» La sua voce flebile, rassegnata e stanca. «Ti prego, aspetta ancora un momento.» Mi fermai, tornai a sedermi. La guardai, cercando un punto da cui ricominciare. «Mi vergogno da morire» disse. «Di cosa?» chiesi piano. «Di me?» aggiunsi, con un sorriso incerto. «Ma non vedi come sono messo?» Provai con l’ironia a scalfire quel muro. In fondo volevo che mi parlasse. Ne avevo bisogno. Non poteva finire con un altro punto interrogativo.

Troppe volte la mia vita mi aveva lasciato di fronte a domande senza risposte. Solo qualche giorno prima la mia fidanzata mi aveva lasciato con una telefonata. Nessun motivo apparente, nessuna spiegazione. Dopo quattro anni insieme mi aveva liquidato in pochi minuti, senza darmi il tempo di capire. Ci eravamo visti la sera prima: parlava di bambini, di famiglia, del matrimonio che sognava in grande stile. Io sorridevo; le dissi soltanto che avremmo dovuto procedere con calma. Mi rispose che avevo ragione, poi ci scherzò su con qualche battuta. Ridendo, avevamo immaginato i dettagli, le nozze, gli invitati. Quando la salutai, mi baciò e disse: «A domani, amore. Ci sentiamo.» La sera seguente, tornato a casa, feci la doccia come al solito e mi preparai per andare da lei. Mentre cercavo le chiavi dell’auto, squillò il telefono. Quel maledetto telefono. Risposi. Dall’altra parte, la sua voce, rotta dal pianto. «È finita» disse. «Io non ti amo.» Rimasi immobile, con la chiave ancora in mano, bloccato in un’angoscia glaciale, in attesa di una spiegazione che arrivò solo dopo qualche interminabile secondo. «È meglio così. Non farti più sentire, ti prego. Non voglio vederti. In fondo me lo avevi detto tu, quando ci siamo conosciuti, che avevi paura di una relazione profonda. Avevi ragione. Addio.» E riattaccò.

Rimasi immobile, senza fiato. La testa mi pulsava più del cuore e dentro di me rimbalzavano i mantra dei perché, uno dietro l’altro, senza che nessuno riuscisse a placare il dolore acceso dentro. Uno valeva l’altro. Le sue parole suonavano come un tentativo di giustificarsi per qualcosa che mi restava sconosciuto. Aveva ripescato una frase che le avevo detto quattro anni prima, quando ancora non stavamo insieme. Se l’era tenuta da parte, come un’arma di riserva, pronta all’uso.

Pensai questo, e il dolore si trasformò in rabbia. Una rabbia cieca. Ci vollero alcuni giorni per smaltirla. Giorni in cui evitai di tornare subito a casa. Uscivo dal lavoro e vagavo per ore in macchina, la musica a volume alto e le lacrime agli occhi. Spesso rientravo che era già mattina, con la mente svuotata e lo sguardo pesante.  Dovevo liberarmi dal veleno che mi scorreva nelle vene, prima che diventasse il mio inferno. Perché, qualche ora più tardi, come sempre, avrei dovuto indossare la maschera del “tutto va bene” e tornare a lavorare. Non so quanti giorni passarono — tre, forse quattro — prima che ritrovassi un minimo di equilibrio. Ma le domande, quelle restavano.

Serie: Le Porte dell'Inferno


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Inizia a delinearsi l’inferno di cui parli nel titolo, almeno così mi sembra. Le circostanze in cui il protagonista è stato lasciato lasciano intendere che sotto ci sia ben altro. Ora aspetto di sapere quale segreto porta con sè la sconosciuta.