
Assordante come il frinire delle cicale – parte 1
Serie: Assordante come il frinire delle cicale
- Episodio 1: Assordante come il frinire delle cicale – parte 1
- Episodio 2: Assordante come il frinire delle cicale – parte 2
STAGIONE 1
Osservava le pareti bianche dall’angolo in fondo alla via come fosse la prima volta, con la paura e l’emozione di chi vede resuscitare un morto.
Agata lasciò che le lacrime scorressero liberamente e ricordò quel tempo laggiù, quando la vita scorreva veloce nella Casa dei nonni, così intensa e colorata che non si accorgeva di viverla. I mattoni con cui era stata costruita conservavano ogni parola, ogni immagine di allora. Quella Casa era fatta di ricordi.
La telefonata era giunta inaspettata, da un lontano parente di cui non aveva quasi memoria.
«Demoliranno la vecchia dimora, volevo che tu lo sapessi». Un nodo alla gola le aveva impedito di ringraziare per quel gesto di pura compassione.
Agata si mosse verso le pareti bianche. Allungò la mano e le accarezzò, poi accostò il viso, annusando l’intonaco come amava fare da bambina, quando con le piccole dita seguiva la strada dei sassolini in rilievo sulla parete.
I suoi ricordi della Casa risalivano ai tempi della costruzione, quasi due secoli prima. Le erano stati tramandati dalle molte donne che l’avevano abitata, ciascuna con la propria storia da raccontare. Aveva accolto intere famiglie e piccole comunità; poteva dirsi un luogo brulicante delle più svariate umanità. Ciascuno al suo interno ricopriva un ruolo preciso: dai padroni, il cui cognome incuteva timore, ai braccianti, operai, donne di servizio, amici e parenti lontani, approfittatori in cerca di qualcosa da mangiare o di qualche soldo da spendersi alla bottega di Iole.
Agata conosceva storie incredibili legate a quelle mura, gesta mitiche di antenati che con sforzo e intelligenza avevano costruito un paese intero scavando l’argilla che il terreno favorevole donava. Avevano eretto le fornaci per cuocere i mattoni, dove gli uomini lavoravano instancabili e le donne portavano loro il pranzo una volta al giorno, con i bimbi aggrappati ai seni.
In tempi più recenti, quando Agata era poco più che una ragazzina, la Casa aveva cominciato a svuotarsi, lentamente, ma inesorabilmente. Lei era stata a osservare lo sgretolarsi di un’epopea e il disperdersi dei suoi attori, come sabbia che scorre fra le dita.
L’urlo di un muratore la distolse da quei pensieri: «Non può stare qui, è pericoloso».
«La prego, solo un momento: questa è la Casa della mia famiglia».
Dirlo le provocò una sorta di sollievo… Sentì per la prima volta di appartenervi. Ora che stava lì immobile, appesa a un angolo della via, le sembrò di non averla mai guardata prima. Forse perché la sua vita era sempre stata un fuggire via da quelle mura e dalla famiglia. Agata non si fermava mai, era sempre di passaggio, cresciuta nei propri sogni come un esploratore di fronte alla carta geografica.
Il muratore la guardò come fosse un’aliena sbarcata da un’astronave. Agata comprese:
«Sono la nipote di Bono».
«Adesso mi ricordo di te. Eri alta così, l’ultima volta che ti ho visto. Fai pure, ma stai attenta».
Rimasta sola e come spinta da un impeto ancestrale, entrò nel cortile. La ghiaia scricchiolava sotto le scarpe. Aprì la porta della veranda e, prima di varcare la soglia, le tornò alla memoria l’immagine della nonna.
Nata nel 1915, prima della Grande Guerra, poteva davvero dirsi una donna d’altri tempi. Il fatto di portare il suo stesso nome non rappresentava per Agata che una mera coincidenza. Perché ciò che realmente la univa a lei si nutriva di quella sostanza immateriale di cui sono intrisi i sogni: era l’orgoglio di sentirsi bella e poi un uomo stupendo. Sì, un maledetto uomo che l’aveva voluta con tutto sé stesso, fino a battersi per lei.
Il nonno aveva ereditato un nome importante, degno del primogenito di una famiglia benestante. Si chiamava Bonifacio e per tutti, allora come oggi, era Bono.
Dopo di lui, i bisnonni avrebbero generato figli maschi destinati al potere e figlie femmine da avviare al monastero. Quando era giunto il momento di scegliersi una sposa, Bono aveva messo gli occhi sulla nonna. Naturalmente, l’aveva avuta presto e facilmente.
Agata si chiuse la veranda alle spalle e fu come immergersi in un mare caldo. La polvere si era posata su ogni oggetto mutandone il colore, mentre un alone di particelle in sospensione si intravedeva attraverso i raggi del sole che filtravano dai vetri colorati. Nessuno si era preso cura dei mobili né dei ricordi appartenuti alla famiglia, o li aveva reclamati.
Appoggiata su una seggiola, Agata incrociò con lo sguardo la porcellana della ballerina che la nonna teneva sul cassettone della camera da letto, le braccia alzate come rami d’albero, la mano mozzata a seguito di una caduta accidentale. Con un gesto imprevisto la portò al petto e pianse, spinta da un impulso improvviso, di quelli che stringono lo stomaco in una morsa. Lasciò che le lacrime scorressero, fino a quando il corpo intero sussultò in un fremito incontrollato. Non oppose resistenza e si lasciò andare, finché i suoi occhi non liberarono l’ultima goccia. Solo in quell’istante sentì di essere a Casa.
Con la sicurezza di chi conosce ogni anfratto dei luoghi natii, proseguì verso il salone con la statuina ben salda fra le mani. Non sapeva cosa cercava ma, nel più profondo, un bisbiglio mai sopito le sussurrava dove guardare. Incastrata tra la cornice di legno e il vetro della grande credenza la ritrovò, sgualcita eppure intatta, più viva che mai: la fotografia del matrimonio dei nonni, un ovale in bianco e nero raffigurante i volti di due persone, fra loro quasi sconosciute, ritratte in una posa forzata, innaturale, nel giorno che si immagina come uno dei più felici. Lei vestita di nero, con i capelli raccolti e il viso già segnato da quella durezza che l’avrebbe contraddistinta per il resto della vita. Agata inclinò il capo e guardò in basso: ora indossava il vestito a fiori, quello dei giorni di festa che metteva per andare in chiesa con mamma e papà.
Seguì, ricalcando con un dito, i lineamenti della donna ancora giovane sull’immagine un po’ sbiadita. Le aveva sempre voluto bene, eppure non si era mai sentita ricambiata. Una volta aveva provato a gridarlo, inutilmente: l’amore fra le donne della famiglia non era un sentimento approvato, nemmeno incoraggiato. Piuttosto una continua rivalità, un modo di misurarsi sempre nello sforzo giornaliero compiuto per sentirsi gratificate dai propri uomini.
Si soffermò poi sul volto del nonno e lo trovò bellissimo, come sarebbe stato sempre per lei. Fu grata a quella fotografia per aver atteso prima di sgretolarsi e per aver mantenuto intatta la grazia dei lineamenti nonostante l’inesorabilità del tempo e l’offesa della polvere. Agata osservò quei capelli neri, riflessi caduti dal cielo buio, scuri come si sarebbero conservati fino al giorno della morte prematura. Toccò poi il suo bel viso per giungere lì dove voleva: perdersi in quegli occhi da zingaro. Gli stessi che, da bambina, sognava talvolta nelle notti d’estate. Solo la donna che era ormai diventata sapeva quante volte, nella vita di poi, avrebbe cercato invano quello sguardo negli occhi di ogni uomo per sentirsi guidata, desiderata, amata.
Quando lui morì, Agata aveva solamente sette anni. Tuttavia, ne conservava ricordi così vividi da non essere mai riuscita a distinguere fra le reali esperienze vissute e ciò che le avevano spesso raccontato. La sua fantasia si confondeva con le pose delle tante fotografie che conservava. La bimba ritratta in braccio al nonno sulla sdraio del giardino, in bilico sulle sue spalle alle parate militari, o accanto a un’auto di lusso, poco prima della partenza di una delle tante Mille Miglia corse da lui.

«Sei stata la preferita del nonno», le era sempre stato detto e Agata, con quel peso, ci era cresciuta. Aveva fatto suo il pensiero che il destino della famiglia sarebbe stato diverso se lui non se ne fosse andato così presto. Ne aveva sentito la mancanza a lungo, portandone il lutto per tutta la vita. Il resto della famiglia iniziò presto a svanire in una nuvola lontana, persa senza il suo punto di riferimento.
Un bel giorno, quella bambina si scoprì grande, così grande da poter vivere due vite separate e distinte: di giorno figlia silenziosa e ligia ai doveri di primogenita, mai fuori luogo, obbediente. Nelle notti tormentate, la Vera Lei, sposa di un universo a parte che, all’insaputa di tutti, prendeva sempre più spazio, plasmandosi in nuove forme a ogni sorgere del sole. Eterna viaggiatrice con la valigia dei ricordi sempre stretta fra le mani. Una bimba che osservava il mondo filtrando ogni respiro, ogni piccolo gesto con le parole della mente, con gli occhi del cuore.
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Che gran piacere perdersi nei tuoi racconti. La pulizia del tuo scrivere è una carezza per l’anima.
Grazie Giuseppe, lo è il tuo commento. Un racconto non facile, intimo e autobiografico in un certo senso. Diciamo, un lavoro su me stessa.
lo leggo solo ora, ovviamente: questa prima parte ha il carattere di un viaggio nostagico e dolente fra i ricordi, ed è dunque un viaggio soprattutto interiore. L’operaio che la fa entrare ha il carattere di una figura di soglia, quasi ermetica, che apre ad Agata un mondo morto ma in attesa solo di un tocco e uno sguardo per essere risvegliato. E il passato si rivela carico di passione, un mondo di donne, mi è parso, in reciproca competizione.
La scrittura è adeguatamente lenta come il dipanarsi della memoria; ho trovato ottimo, dal punto di vista drammatico, quel soffermarsi davanti all’ antico ritratto.
Grazie Francesca per le tue parole. Diciamo che è una sorta di cammino ‘di mezzo’ che si districa fra viaggio reale negli ambienti conosciuti e viaggio nel ricordo di quello che la vita ci toglie per riservarci sempre qualcosa di nuovo. Ho scelto effettivamente un tipo di scrittura ‘rallentata’ che in effetti un po’ mi caratterizza, anche in altri racconti. In questo specifico caso mi è servita per camminare nella casa cercando di cogliere i particolari di un tempo oramai passato.
Evviva! Finalmente. Mi mancavano i tuoi racconti, Cristiana. Una storia molto coinvolgente e stimolante. Non so se capita anche a te, quando un libro, un romanzo o un racconto, ti piace e ti prende: testa e cuore, risvegliando ricordi, affetti e sensazioni; sollecitano nuove idee, che premono e non ti danno pace finche` non ti metti li` a dedicarti solo a loro.
Doppio grazie quindi, per il piacere della lettura, che non finisce qui, e per la spintarella che mi mancava.
Ciao Cristiana.
Noi che le spintarelle ce le diamo a vicenda, per fortuna. A volte ci incastriamo un po’ e l’altra tende una mano. Basta una piccola spinta, un incoraggiamento. Grazie Maria Luisa, mi piace questo accompagnarci nei nostri viaggi. Un abbraccio
Ok sarà che il tema nonni è un nervo scoperto per me, ma la lacrimuccia è scappata … anche l’incipit con la chiamata che segna la distruzione della casa fa iniziare il tutto con la giusta dose di malinconia.
Triste, ma bellissimo ❣️
Grazie Lola. Triste sì, o forse malinconico. A volte è così che va. Inutile dire a te che sei così sensibile, quanto bisogno ne abbiamo.
Un bellissimo scritto, che si manifesta subito come l’inizio di un intenso romanzo, al contempo familiare, intimo e generazionale, promettendo di attraversare epoche diverse nei racconti di chi le ha vissute riportati da chi vive quella attuale. Non so se sia questa la tua intenzione, sicuramente è questa la vocazione di questo episodio: vuole crescere, fino a raccogliere tutto quello che hai da raccontare. E sono sicuro che sarà una gran bella storia. Lasciala uscire.
Sai, nasce come auto conclusivo e suddiviso in due episodi per questioni naturalmente di lunghezza. È anche vero che quella valigia è talmente piena che oramai sotto al letto quasi non ci sta più. Vediamo cosa decide lui, il racconto. Perché noi sappiamo da dove vengono le nostre parole. Un abbraccio
“Eterna viaggiatrice con la valigia dei ricordi sempre stretta fra le mani. Una bimba che osservava il mondo filtrando ogni respiro, ogni piccolo gesto con le parole della mente, con gli occhi del cuore”
Che bella frase per descrivere lo stato d’animo di chi si prepara, lentamente, crescendo, a spiccare il volo. 👏
Lo stato d’animo di chi in volo, sospesa, ci sta bene. Difficile è scendere. Grazie Giancarlo.
Bello. Mi hai lasciato senza parole.
Curato in modo particolare, ha la bellezza di un romanzo e la forza di un diario intimo.
L’ingresso nella casa, l’apparizione della foto: una regista davvero in gamba, ho visualizzato ogni passo fatto.
Emozionante, commovente.
Chapeau.
Una storia, in realtà, talmente intima e nascosta che non sarebbe mai uscita da sola se non con l’aiuto di quel ‘regista’ che, paziente e sensibile, ha saputo prendermi per mano e guidarmi fino a dentro. Un racconto nato tempo fa, rimasto lì, monco e incompleto. Quasi timido e timoroso di mostrarsi e di mostrare. A volte da soli non ci si riesce e in questi casi è bene saperlo ammettere rivolgendosi a chi magari ha imparato a conoscerti e sa come guidare. Grazie Robért
Una architettura narrativa che incastra ossimori e sinestesie. Vuoti e pieni, rumore e silenzio, passato e presente. Su tutto si posa quella delicata patina di polvere di nostalgia che rende preziosi i ricordi e gli affetti vissuti. Si avverte il fantasma di Garcia Marquez
Grazie Hugo che vedi a fondo. Il fantasma è lì, legato a quell’albero, solo. E legati allo stesso albero ci sono i ricordi di un’infanzia vissuta in bilico fra la realtà e un sonno-veglia da cui ancora non esco.