Autobiografia di un essere sensibile
Serie: Autobiografia di un sensitivo sensibile
- Episodio 1: Autobiografia di un essere sensibile
STAGIONE 1
Nacqui sotto una stella che nessuno aveva mai saputo nominare. Era più spenta delle altre, ma non meno presente, una specie di errore di battitura nel cielo. I vecchi del paese dicevano che, quando una stella sbaglia a nascere, anche chi la segue è condannato a inciampare nel mondo. Mia madre, però, di quella notte ricordava solo il freddo e un dolore che “sembrava l’inizio della fine”. Nessuno notò la stella, tranne me. O almeno così mi raccontai, crescendo, nei miei pomeriggi di solitudine.
C’era qualcosa di disallineato in me sin dai primi respiri: un’antenna rivolta altrove, forse tarata male, forse puntata su una frequenza incompatibile con l’umano. Nei primi anni, la natura mi sembrava l’unica creatura viva che avesse voglia di parlarmi. Passavo le ore a toccare le cortecce degli alberi, come se volessi imparare un alfabeto diverso, più rugoso ma più vero. Ogni vento, ogni cane randagio, ogni sasso sul sentiero pareva conoscermi meglio dei miei genitori.
Fino ai dieci anni fu tutto un gioco a metà tra il sacro e l’assurdo. Le foglie avevano nomi, le nuvole erano astronavi e i lombrichi erano profeti che mi annunciavano la pioggia. Era un mondo mio, certo, ma più mio della cucina di casa, dove il silenzio tra mio padre e mia madre sapeva di fumo e cenere. Quando le cose iniziarono a complicarsi — più o meno intorno ai dieci — lo fecero come solo le cose invisibili sanno complicarsi: in silenzio, sotto pelle, piano, senza fare rumore.
Fu allora che mi venne il dubbio. Forse non ero figlio loro. Forse ero figlio delle stelle. Il pensiero mi venne mentre guardavo il cielo da una finestra appannata, e non fu una fantasia. Fu una convinzione. “Loro torneranno a prendermi”, mi dissi. Loro chi? Non lo sapevo, ma li attendevo ogni notte, tremando, sotto le coperte.
Gli alieni, nella mia mente, avevano occhi enormi e neri, obliqui come tagli sul viso, e dita lunghissime, bianche, capaci di guarire o distruggere. Li aspettavo con terrore e fede, come si aspetta una punizione giusta. Ero certo che sarebbero venuti, non per farmi del male, ma per portarmi via da un posto che non capivo. L’unica cosa che temevo più del loro arrivo era che non venissero mai.
La cosa buffa è che, da fuori, sembravo solo un bambino tranquillo. Non parlavo quasi mai, ma a scuola andavo bene. Gli adulti dicevano: “È intelligente, ma strano”. La mia stranezza era l’unica parte vera di me. Avevo dodici anni quando cominciai a pensare che forse avrei voluto… sparire. Non morire, no. Solo non esserci più. Come se si potesse premere un interruttore e smettere di essere osservati da un mondo che non ti capisce. Era come desiderare una pausa dallo sforzo di essere umano.
Pensavo spesso alla morte, ma non perché volevo morire. La morte mi affascinava per la sua sincerità. Era l’unica cosa che sembrava non mentire. Nessuno finge di morire, si muore e basta. E io avevo bisogno di qualcosa di semplice, di diretto. Qualcosa che non chiedesse spiegazioni.
Il mio rapporto con mio padre era l’opposto. Lui non chiedeva, non spiegava, non parlava. C’era e basta. Ma c’era come un armadio chiuso che contiene qualcosa di pericoloso. Avevo paura perfino del suono dei suoi passi. La sua sola presenza in casa cambiava il clima, come un improvviso abbassamento di pressione. Se sapevo che era lì, iniziavo a sudare, le mani mi diventavano fredde. Il silenzio si faceva più pesante, come se ogni oggetto volesse smettere di respirare.
Una volta provai a dirgli che avevo paura. Mi guardò come se stessi parlando una lingua inesistente. Non rispose. Solo una volta lo sentii dire a mia madre:
“Doveva nascere femmina. L’ho sempre detto.”
Non so se mi fece più male quella frase o il fatto che lei non disse niente. Da quel giorno decisi che non sarei mai più esistito davanti a lui. Mangiai più in fretta, camminai in silenzio, evitai persino di tossire in sua presenza. Smisi di essere figlio. O forse non lo ero mai stato.
Così nacque la mia seconda vita: quella dei mondi alternativi. Ogni sera, rientrato da scuola, correvo in camera. Lì c’erano i miei alleati: qualche libro rovinato, un mangianastri, vecchi dischi e una pila di fogli su cui scarabocchiavo storie senza senso. Era il mio modo di dire: “Io ci sono, ma non come volete voi”.
Una volta scrissi una storia in cui un bambino scopre di essere il risultato di un esperimento interstellare fallito. Gli alieni decidono di non recuperarlo perché ormai troppo “contaminato” dal mondo umano. Finisce che il bambino costruisce da solo una navicella di parole e se ne va. Credo che fosse la storia più vera che avessi mai scritto.
Mi chiedevo: perché tutti gli adulti sembrano così sicuri di essere umani? E se sbagliassero?
Serie: Autobiografia di un sensitivo sensibile
- Episodio 1: Autobiografia di un essere sensibile
Un attacco vagamente esoterico e ironico che conduce, poi, a una narrazione più concreta che sgrossa “la situazione”. Ho letto con piacere e mi è rimasta la curiosità di vedere come prosegue, se proseguirà… grazie per la lettura