
Bicicletta in Val Veny
Rientravamo dal versante francese del Monte Bianco stanchi e soddisfatti di quell’impresa che ci aveva portato, per la prima volta, oltre quota quattromila, fermati, nel nostro tentativo di arrivare in vetta, non tanto dal vento che ci obbligava a stare accucciati per lunghi minuti, quanto dalla giusta decisione delle guide di Chamonix di ricacciare tutti indietro. Ci avevamo parlato con le guide, nel tentativo di eludere il divieto, ma una di loro, un omone imponente che ricordava Obelix, ci condusse alla ragione con una motivazione che non lasciava scampo: «Non ho nessuna intenzione di tornare a cercarvi e trovarvi morti». Così eravamo tornati sui nostri passi un po’ a malincuore perché la giornata, a parte il fortissimo vento, era meravigliosa: nessuna nuvola ed un paesaggio da favola sospeso tra il bianco dei ghiacciai ed il blu del cielo.
Decidemmo di dedicare qualche giorno alla affascinante Val Veny, sempre alle pendici del Bianco, ma sul versante italiano. Ci arrivammo nel tardo pomeriggio e le nostre buone intenzioni prevedevano di trovare un posticino dove piantare la tenda e dormire. Non andò così. A metà valle ci attirò l’insegna di un bar e trovammo opportuno berci un Campari col Bianco, onorando così il monte che ci stava ospitando.
Quando eravamo lontani dal Trentino, un po’ per scherzare e un po’ per attaccare bottone con chi stava dietro al banco, ordinavamo una bicicletta, così era chiamato nelle nostre zone, ma credo anche in Veneto, il bianco con un Campari soda smezzato in due. Quasi sempre ottenevamo sguardi interrogativi e la parte divertente era spiegare cosa fosse quello da noi richiesto e, quasi sempre, si finiva col ridere assieme al, o alla, barista. Anche quella sera inscenammo il consueto siparietto ma la giovane dietro il bancone, con tipico accento del centro Italia, ci spiazzò immediatamente dicendo, per niente in difficoltà :
«La preferite col Bitter o col Campari soda?»
Noi ci guardammo e scoppiammo a ridere e lei ci guardò perplessa e con la bottiglia di vino ferma a mezz’aria chiese:
«Ho detto una fesseria?»
Flavio la rassicurò che i fessi eravamo noi che ci divertivamo a mettere bonariamente in crisi chi non sapeva cosa si intendesse per bicicletta. Spiegata la cosa anche lei rise con noi e, aggiustandosi una ciocca ribelle che le cadeva sugli occhi, aggiunse:
«Vi è andata male solo perché, pur essendo marchigiana, ho fatto una stagione in Val di Fiemme e li lo chiamavano come voi».
Restammo a chiacchierare piacevolmente con lei per una mezz’ora, replicando la consumazione, quindi, visto che cominciava a imbrunire e si faceva pressante la necessità di trovare un posto nel quale campeggiare, chiedemmo il conto che Flavio pagò con una banconota da diecimila lire. Mentre la ragazza depositava i soldi in cassa un giovane, calice di birra in mano, le chiese qualcosa e lei rispose amichevolmente, consultando l’orologio al polso. La distrazione durò solo pochi secondi, poi ci portò il resto e lo contò davanti a noi:
«Sette, otto, nove e dieci, venti, trenta, quaranta e cinquanta».
Flavio prese le quattro piccole banconote da mille, poi la guardò e le disse a bassa voce, in modo che altri non notassero il suo errore:
«Guarda che ti ho dato diecimila, non cinquanta».
Lei arrossì, visibilmente agitata, e si profuse in ringraziamenti che le assicurammo non fossero dovuti. Stavamo già uscendo quando ci richiamò: sul bancone due bicchierini colmi erano pronti per noi.
«Non potete andarvene senza assaggiare questo.» disse.
E in effetti non ce ne andammo e mentre fuori il buio ormai era calato e tuoni e lampi prospettavano una notte movimentata, noi ce ne stavamo beatamente bevendo un ottimo liquore ambrato dal sapore inconsueto e gradevole.
«Molto buono» dissi, guardando la bottiglia senza alcuna etichetta «cos’è?»
«Genepì» rispose, «fatto in casa. Non possiamo venderlo, ma offrirlo, con la giusta cautela, agli amici si» spiegò.
«Ottimo veramente,» sottolineò anche Flavio «ma ora sarà meglio che andiamo, prima che cominci a diluviare.»
Ma le cose, quando prendono una certa china, sembrano seguire un copione prestabilito al quale non puoi opporre resistenza. Mentre scendevamo dagli sgabelli arrivò, interrompendo i saluti, il moroso di Luisa, così si chiamava la giovane barista, che, informato dell’episodio e complice il fatto che avesse prestato servizio militare come alpino a Monguelfo, ci costrinse, peraltro senza eccessivo sforzo, a un’ ulteriore replica di Genepì. A noi si unì anche il ragazzo che prima aveva chiesto quando sarebbe arrivato Renè, moroso di Luisa e suo amico, distraendola e innescando, involontariamente, questo susseguirsi di chiacchiere, risate e brindisi che trasformò quello che doveva essere un fugace aperitivo in una lunga serata tra amici. Fu solo la stanchezza e una piccola residua traccia di buonsenso che ci indusse, tra abbracci, saluti e pacche sulle spalle, a lasciare la piacevole compagnia.
Stanchissimi fisicamente e moderatamente provati dai liquidi ingeriti non avevamo la vogliaa e tantomeno la forza di montare la tenda sotto la pioggia fredda che ancora cadeva abbondante. Decidemmo così, trovata una piazzola a lato strada, di dormire in macchina: la Fiat 131 era comoda e spaziosa e sui sedili reclinati sembrava quasi di stare a letto. Quasi.
«Stai russando,» Flavio interruppe il mio sonno profondo, «ma non è questo che mi ha svegliato, ascolta.»
Cercai di riacquistare padronanza dei miei sensi. Il mio amico, come me, non era tipo da sentirsi disturbato dal russare: innumerevoli notti in cameroni di rifugi alpini ci avevano abituati a questa umana attività notturna. Ascoltai attentamente e ogni tanto, ma con preoccupante continuità , si sentivano dei rumori: sassi che rotolavano ma anche tonfi e fruscii ai quali non sapevamo dare spiegazione.
La mattina, ben svegli, indagammo arrivando alla conclusione che la grande pietraia che si estendeva a lato della strada era la superficie del Miage coperto da sfasciumi e detriti che il ghiacciaio, nel suo lento ma continuo incedere, accompagnava a valle: i suoni che avevamo sentito nella notte si udivano anche ora e testimoniavano l’affascinante lavoro di modellazione compiuto dalla natura.
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Caro Giuseppe, la ‘bicicletta’ non la conoscevo, però conosco la ‘bici’ riccionese che mescola birra e gassosa. Insomma, io e te siamo l’esempio più eclatante dello scontro montagna/mare e credo che nessuno dei due riuscirebbe a dissuadere l’altro, nemmeno dopo un’estenuante e sana litigata.
Un bel racconto di amicizia e spensieratezza, scritto davvero bene, con quel tuo stile pulito e accattivante.
p.s. ‘moroso’ si dice anche da noi, o meglio, si diceva, perché oramai nemmeno i miei figli lo usano più.
Un abbraccio 🙂
Ma guarda che bella storia hai costruito! Come una bacchetta magica che sa creare mondi, basta una parola e i personaggi sbocciano come fiori. Chissà che prima o poi ci si trovi a brindare!
Tu sei compartecipe! Lo spunto è nato dalle nostre disquisizioni sullo “Spritz”. Comunque, è una cronaca un pò romanzato di fatti realmente accaduti. Grazie Francesca! Non sarebbe bello trovarsi un giorno a fare aperitivo, ma anche cena, con gli amici di Edizioni Open?
Certo, in qualche baita di montagna!
Voglio precisare che la fotografia ritrae il mio amico, quasi fratello, Flavio, mio coetaneo (1956, i calcoli fateli voi 😂). Se scriverò ancora di ricordi “alpinistici” ( e ne scriverò) lui sarà sempre presente, perché il nostro avventurarci su per i monti ci ha uniti, in maniera quasi esclusiva, per buona parte della nostra vita.
Ciao Giuseppe, è una storia godibile dal gusto vagamente nostalgico (ah, le 10 mila lire…). Oltre alla convivialità che contraddistingue chi è avvezzo a girovagare per le montagne (nella zona che frequento io, il bianco col Campari lo chiamano pirlo), racconti anche un aspetto importante di questa passione: la montagna sa essere tanto bella, quanto pericolosa e non va mai presa sotto gamba. Ti ringrazio per la bella lettura che mi riportato alla mente bei momenti e avventure. Viva gli Alpini!
Racconti
Mentre leggevo pensavo che cose simili possono accadere solo in Italia, qui non ho mai visto niente del genere. Le persone sono gentili, certo, ma nessuno entra in confidenza in quel modo e tanto rapidamente. È stata una piacevole lettura, bravo Giuseppe 🙂
Si chiama bicicletta perché restare in equilibrio sulla bicicletta è un’impresa ardua per chi, terminata la bevuta (sbronza), deve rientrare a casa. Pensa che nel lontano 1981 comprai la Fiat 131 supermirafiori 2.000, per me era un bolide, tanti cavalli ma un assetto troppo ballerino. Ricordi di gioventù, tu mi puoi capire. È sempre piacevole leggerti, le tue storie finiscono sempre troppo presto.
Piacevolissimo il tuo racconto, peccato che non è andato a finire come mi sarebbe piaciuto 😇. Ma non si può avere tutto dalla vita😉
@LegGoriferito Ma tu sei un romanticone 😂