
Casa, dov’è
Amavo la mia città.
L’avevo amata sin da bambino, quando per la strada giocavo a riconoscere le marche delle automobili dalla sagoma o dalla foggia dei fari, ché si credeva l’unicità un valore da perseguire.
La mia famiglia abitava in un rione periferico a sud-est che, data l’espansione della metropoli verso nord, non era troppo distante dalla Madonnina, ma assai vicino a dove le case cedevano lo spazio ai campi e agli orti. L’appartamento si affacciava su una piazza che a tutte le ore era uno schiamazzo di ragazzini col pallone, e un cristonare di adulti che rampognavano i ragazzini col pallone, con la facciata della chiesa a far da testimone e il campanile che stabiliva quando era ora di finirla e andare a mangiare.
Le quattro vie che si articolavano dal sagrato, più che un quartiere, definivano un minuscolo villaggio all’interno della città. Erano ricche di negozi, oltre ai due forni (i prestiné): il lattaio, il vinaio, il droghiere e poi il pizzicagnolo, il macellaio (el cervellee), la tintoria, il ciclista… E infine, il negozio che maggiormente stimolava la mia immaginazione: il concessionario, con officina, della Moto Guzzi. L’aquila che campeggiava sui serbatoi dei modelli esposti mi affascinava e non era raro trovarmi col naso appiccicato alla vetrina, intento a studiare tutti i particolari delle motociclette.
«Dai, vegn denter che te me voncet el veder…» mi aveva invitato un giorno il Piero, pur consapevole che avrebbe dovuto attendere qualche anno per avermi come cliente «però, me raccomandi, tocca nient: se guarda e basta!»
Non me l’ero fatto ripetere. Ero entrato e in silenzio, come neanche in chiesa, mandavo a memoria ogni linea dei telai, le fattezze dei motori e le più minute finiture dei fanali o dei manubri cromati. Sembravo uno di quei turisti giapponesi che si vedevano in giro a fotografare ogni cosa, ma io lo facevo senza fotocamera, mentre inspiravo a fondo per catturare l’odore degli pneumatici e della vernice nuova; fino a che il Piero non s’era stufato di avermi tra i piedi e mi aveva menato via.
«Grazie, signor Guzzi.»
«Sì, magari! S’te veouret, torna on alter dì.»
Nel borgo dentro la città, c’era anche la gente che, come accade nei piccoli agglomerati urbani, pare incapace di farsi i fatti suoi. E sovente capitava che qualcuno mi fermasse per la via, mentre ero intento a escogitare qualche birbonata: perché in definitiva ci si conosceva tutti. Era un eco-sistema di sorveglianza assai più efficace dei gps sui cellulari che, per inciso, erano ben lontani dal fare la loro comparsa.
«Ma sei il figlio della Tecla, oh Signor, sei diventato un ometto!» La sciora Pina, dalla voce squillante come una sega elettrica. «Allora, conta su: hai deciso cosa vuoi fare da grande?» mi chiedeva, lisciando il vestitino color della carta delle uova di pasqua.
«Pensavo di fare il palombaro» rispondevo, storcendo le gambe per far capire che di lì a poco mi sarei voltato per andarmene.
«Il palombaro? Uh, che bizzarria.»
Ma perché, avrei domandato, se non fosse che proprio non avevo voglia di proseguire quella conversazione.
Alcuni compagni avevano il papà dottore o avvocato e per emulazione o scarsa fantasia (ero ingenuo allora…), rispondevano alla domanda rituale con la rispettiva professione, ma mio padre faceva l’impiegato, come pure la mamma, e io non aveva idea di che lavoro fosse, né cosa diavolo facesse un impiegato, quindi optavo per il mestiere che faceva un parente di Pavia, palombaro per l’appunto, il quale un giorno mi aveva mostrato l’attrezzatura con tanto di tuta, casco e tutto il resto; e in definitiva, mi era sembrato più originale rispetto ad altri abusati, come l’astronauta. Sentivo di volermi staccare da quelle scelte, un po’ come per il costume di carnevale: tutti Zorro! Io, per carnevale, mi ero fatto fare dalla nonna, che col cucito ci sapeva fare, un costume da netturbino con tanto di scopa di saggina. Tra l’altro, avevo il mio bel daffare, insieme ai miei colleghi, che per lo più bestemmiavano a ogni festosa ricorrenza, con tutti quei coriandoli e stelle filanti sui marciapiedi.
***
Ho finito per fare anch’io l’impiegato; non me ne capacito. Per di più, dopo tanti anni, non ho ancora capito che mestiere sia.
Sono tornato a vedere quella piazza, il luogo dov’ero cresciuto e dove pensavo di veder riaffiorare tanti ricordi. Ma tutto è diverso, la riconosco a stento. Certo la chiesa c’è ancora, eh quelle chi le abbatte! Ma il sagrato adesso è recintato che i ragazzini non possono più giocare col pallone, nel mezzo ci hanno fatto un’area pedonale con micro pista ciclabile annessa (venti metri) e poi un bombardamento di piccole aiole con piantine buone per una selezione di bonsai; la strada l’hanno ridotta a un budello che si fatica a transitare.
È rimasto solo uno dei due forni, tutti gli altri negozi sono spariti lasciando il posto a chi vende roba di telefonia, tra parentesi: mi sono arreso e adesso possiedo anch’io uno smartphone, che però spesso dimentico a casa. Tra le attività commerciali ora c’è il money transfer, il compro oro e un kebabbaro, quest’ultima la più simpatica, per lo meno dall’uscio esce un buon profumo e non il consueto olezzo. Il Piero è morto e il figlio, che non aveva voglia di proseguire nell’attività del concessionario con officina: ha venduto tutto e s’è trasferito al Caribe.
Oggi vivo in un’altra zona, non molto distante dal borgo natio. Anche qui molti negozi non hanno resistito alla diffusione di supermercati e centri commerciali; tanti sono diventati abitazioni (a basso prezzo, data la posizione a bordo strada) a uso di turisti, ma per lo più studenti o extracomunitari che vi dimorano in gruppo. Di altri non restano che le saracinesche ruggini.
Adesso, che toccherebbe a me fermare piccoli birbanti per strada e chiedere cosa vogliono fare da grandi, di bambini non se ne vedono più.
È amaro, ma sogno di andarmene, in un luogo che possa sentire casa, ché alla città che mi ha cresciuto, sento di non appartenere più.
Avete messo Mi Piace5 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Che bel regalo Paolo. Non so come sia stato possibile, mentre tu scrivi di chi cerca una casa in un luogo al quale non sente più di appartenere, io improvvisamente torno a caasa mia. È successo anche a me di tornare nei luoghi in cui sono cresciuta alla ricerca di sapori e sensazioni che invece non ho ritrovate. Le ho ritrovate invece leggendo i tuoi ricordi, forse perché il dialetto è lo stesso, non l’ho mai parlato ma adoro sentirlo, forse perché le frasi dei vecchi per i giovani non cambiano mai…ma mi è sembrato di tornare bambina ed essere dove sono cresciuta, dove ormai quando torno però non mi ritrovo più. A tua insaputa mi hai regalato i miei ricordi. Grazie!
E’ un piacere sentirlo, Irene. Alle volte accano cose che non sappiamo spiegare, ma forse proprio per questo, ci stupiscono. Il dialetto ho cercato di riprenderlo, a posteriori, e studiarlo un po’ perché credo che possa offrire sfumature difficilmente replicabili con l’italiano. Sono felice di scoprire di aver evocato qualche ricordo, grazie a te per aver letto, a presto
“Ho finito per fare anch’io l’impiegato; non me ne capacito. Per di più, dopo tanti anni, non ho ancora capito che mestiere sia.”
Fantastica
Tocchi un tema, quello della casa, che io amo particolarmente, un tema delicato, conflittuale, malinconico, famigliare. Ma al di là del mio aspetto personale, ho amato davvero questo racconto, è scritto benissimo, ogni emozione è sentita da chi scrive e arriva a chi legge: bravissimo!
Grazie pre aver letto, lieto che lo scritto abbia sfiorato qualche corda emozionale.
Mi è piaciuto molto, delicato, malinconico. Ho amato il fatto che il protagonista abbia ancora un sogno, indipendentemente dalle ragioni che l’hanno fatto nascere. Nonostante tutto lo considero un lieto fine.
Grazie Roberto, mi piace molto il tuo pensiero sul lieto fine. In fondo, anche se non facile, casa può non essere necessariamente un luogo, ma piuttosto l’insieme delle relazioni che si possono instaurare a prescindere da dove ci troviamo.
La nostalgia per la propria città, per il quartiere dove si è nati e cresciuti, ci accumuna tutti. A volte guardo su Google Maps la mia città di origine, ripercorro le strade con il mouse, noto i cambiamenti che a volte mi piacciono e altre mi rattristano; ed esulto vedendo il negozio dove mia madre, con 200 lire, comprava i giocattoli per me e mio fratello. Un giorno sì e uno no. Della gente di allora ho paura di chiedere, ma era come l’hai descritta tu, anche se parlavano un altro dialetto. Tu cerchi un’altra città? Cerca invece dove c’è gente che ti ascolta e ti parla. Scusa per il lungo commento e complimenti per il tuo bellissimo racconto, Paolo.
Ciao Concetta, il rimpianto sta proprio nella perdita della dimensione umana del contatto che, pure in una città di grandi dimensioni, un tempo vinceva la misura della metropoli; e ora pare negato. La domanda sottesa è: si può davvero recuperare spostandosi altrove…? Dal tuo commento sembrerebbe di sì. Graditissimo quindi il tuo pensiero, e non pensare alla lughezza, non sono abbastanza moderno da amare la sintesi ad ogni costo. Grazie per aver letto e per aver commentato apertamente.
Bello questo racconto che sa di vita vera, vissuta, un po’ nostalgico e colorito dalle espressioni dialettali.
Sul proposito del protagonista di lasciare la città per trasferirsi in qualche altro luogo piú tranquillo, e magari in un piccolo borgo come quello in cui é cresciuto, non posso che condividere.
Grazie Luisa per il tuo tempo, e la tua condivisione. A presto
Giusto un paio di indicazioni per la lettura del milanese: la “o” si legge “u”; la “u” si legge “ü”; le doppie non si leggono; “eou” suona come il francese, ché viene da lì.