
Celeste come il mattino
Credo esistano posti che conservano l’impronta delle persone, una traccia del loro passaggio in questo mondo, anche dopo anni che se ne sono andate.
Non mi capita più molto spesso di passare di qui, ma oggi è un giorno particolare e i ricordi non mi bastano. Voglio ritrovare quella ragazzina con gli occhiali che non riesce a tenere ferme le mani mentre parla concitata e la sua nonna con la giacca nera e gialla, che annuisce e la ascolta tranquilla. Mi avvicino con gli occhi lucidi nascosti dietro le lenti dei Ray-Ban, un po’ agitata all’idea che qualcosa vada storto, la nostra panchina sia occupata o qualsiasi altro dettaglio fuori posto. Saranno passati quindici anni e il mondo ha avuto tutto il tempo di cambiare, così come sono cambiata io. Ma qui il tempo ha deciso di scorrere senza fare danni, senza cancellare l’impronta. Nonna e nipote sono ancora sedute sulla panchina, sotto uno di quei cieli azzurri che amano tanto. Non è importante cosa si dicono. Non si curano del tempo, così come il tempo non si cura di loro.
Mi siedo e il nodo in gola e al cuore inizia a sciogliersi.
Mi guardo in giro e i miei 30 anni scivolano indietro, come l’onda che lambisce la sabbia e poi scompare sotto altra acqua.
Mia nonna Dina era minuta, un ‘Donìn piccin’ come era solito chiamarla mio padre in dialetto e con affetto. Il colore dei suoi occhi era in tono con quello del nonno e mi faceva pensare al cielo sereno del primo mattino, quando il sole fa ancora il timido. Portava i capelli corti del suo bianco naturale e ogni sabato pomeriggio andava dalla parrucchiera. Non lo faceva per vanità, ma per praticità. Spazzole, creme e cosmetici nelle sue mani erano superflui, non avrebbe neanche saputo usarli. Per questo l’appuntamento del sabato pomeriggio era improrogabile. Ci teneva ad essere in ordine.
Se apro la valigia dei ricordi, uno dei momenti che mi capita per primo tra le mani appartiene a un pomeriggio di settembre di venticinque anni fa, quando una bambina sdentata e con i capelli corti scendeva di corsa dal pulmino dell’asilo. La nonna era in attesa, un sorriso a malapena celato, pronta per darle la notizia che era nell’aria da giorni. “È arrivato il fratellino con la mamma.” Quel fratellino che avevo aspettato per un tempo infinito (nove mesi sono interminabili per una bimba di cinque anni) si sarebbe finalmente materializzato davanti ai miei occhi. Le era piaciuto darmi quell’annuncio, a distanza di soli venti giorni da quando ne aveva ricevuto un altro, arrivato via telefono e mescolato a delle lacrime. Anche quella notizia era nell’aria. I nostri sguardi si erano incrociati, mentre rispondeva a monosillabi, la cornetta rossa appiccicata all’orecchio. Mentre lei aveva deciso di non dirmela, io la verità l’avevo capita. Però, avevo fatto finta di niente. In qualche modo, con la strana perspicacia che si può avere da piccoli, avevo compreso che non spettasse a lei dirmi che il mio nonno paterno non c’era più.
Io e nonna Dina seguivamo le stagioni. Le nostre passeggiate sono iniziate ben prima dei miei ricordi e dei miei primi passi, prima dentro una carrozzina e poi per mano. Anche nei suoi ultimi anni le nostre mani si cercavano. Lei allungava le dita verso di me, si lamentava della mia pelle fredda e io ridevo. Scendevamo le scale insieme, la nipote teneva per mano la nonna per attraversare la strada, in una sorta di cerchio che si chiudeva, un modo come un altro per dirsi grazie.
A scandire il nostro tempo non c’erano soltanto le passeggiate. Mia nonna mi accompagnava al parco e quello sì che è un posto di cui il tempo non ha avuto pietà. Ma nei miei ricordi c’è ancora lo scivolo che tutte le nonne, non solo la mia, vedevano come pericoloso, adatto ai bambini ‘grandi’. Eppure, non ci impedivano di usarlo e neanche di salirci al contrario, di farci provare il brivido di una scalata che non sempre riusciva. Le nonne si sedevano sulla panchina vicino all’alloro, chiacchieravano tra loro senza perderci di vista, cercando di evitare il più possibile incidenti. Non ci riuscivano sempre, non saremmo stati bambini se non ci fossimo mai fatti male. Le sbucciature sulle ginocchia o sui gomiti mi guarivano e subito dopo ne comparivano altre; medaglie al valore che testimoniavano perlopiù cadute in bicicletta.
All’ora della merenda, che scattava uguale per me e i miei amichetti, le nonne ci chiamavano a rapporto. Dal mio zainetto rosso uscivano gli snack del momento, anche quelli predefiniti per tutto il gruppetto del parco. Poi, si tornava a giocare e le nonne dovevano fare la loro parte. Era a loro che portavamo i nostri manicaretti a base di foglie secche ed erba, ricevendo consensi e apprezzamenti. Quando i pomeriggi diventavano troppo caldi il luogo di ritrovo cambiava. Ci spostavamo nella piazza principale del paese, dove l’ombra si colorava del verde dei platani e le aiuole creavano il confine delle nostre piste. Crescendo, certi amichetti li ho persi per strada, i discorsi sono cambiati, ma le passeggiate con la nonna sono rimaste. Camminavamo e le facevo una cronaca dettagliata delle mie giornate o delle serie tv che guardavamo, ma di cui lei perdeva sempre qualche passaggio. Quando il discorso entrava nel vivo ci fermavamo, come se i passi avessero potuto distrarci, togliere enfasi al racconto. Appena l’apice della tensione scendeva si poteva ripartire, per fermarci di nuovo al colpo di scena successivo.
A un certo orario, che variava a seconda delle stagioni, andavamo a casa. Era il momento della cioccolata calda, o del thè freddo, o di una pizzetta. L’importante era farmi bere o mangiare qualcosa, come è tradizione che facciano le nonne. I cioccolatini e le caramelle erano a parte, il bottino con cui tornare dalla mamma. Almeno una volta alla settimana tornavo con qualcosa di più cospicuo. Mia nonna non era particolarmente creativa in cucina, ma quasi tutto quello che preparava entrava di diritto nella mia lista dei piatti preferiti e non ne usciva più. La pizza, la torta di riso, le melanzane alla parmigiana e, più di tutto, le frittelle. La felicità, in quegli istanti, diventava commestibile.
C’era sempre un momento giusto per tutto, anche per i regali. Mia nonna non mi viziava, se non quel minimo che è concesso ai nonni. C’erano volte in cui consolava le mie lacrime con piccoli pensieri, un modo come un altro per far durare una carezza nel tempo. Una volta si era trattato di un cappello di cartone, di una mascherina rossa e di una bacchetta argentata, che mi avevano trasformato in una buffa, ma convinta principessa. In altre occasioni, erano bastati dei piccoli gelati di plastica e dei mobili in miniatura per farmi dimenticare la tristezza del momento. Ma il regalo che ha conquistato il podio dei nostri pomeriggi insieme, è stata la scatola rosa di Lego, con cui per anni ho costruito non so quante deliziose villette, con annesse storie più o meno articolate fatti con i soliti quattro personaggi, attori snodati capaci di calarsi anche nei ruoli drammatici che la mia immaginazione creava.
Continuo a frugare nella valigia dei ricordi e trovo sul fondo, un po’ spiegazzate e sbiadite, frasi e filastrocche che pensavo di aver perso.
Se mi andava di traverso un boccone o la saliva, la nonna mi invitava a guardare in alto, alla ricerca “de braghe du puin”. Lo facevo, pur con qualche perplessità. Chi fosse questo padrino, perché i suoi pantaloni avessero il potere di calmare la tosse e, soprattutto, cosa ci facessero appesi al soffitto, continuerà a essere un mistero della mia infanzia. Una certa curiosità me la creavano anche gli animali di una canzoncina che risuonava nei giorni di pioggia battente. Faceva così:
“Ciove, ciove a galinn-a a fa e ove,
u gatt-u u fa e lasagne
e u can u moe da famm-e”
Non nego che ci vedessi una qualche logica in un gatto che prepara le lasagne e in un cane che rimane a bocca asciutta, un senso che agli adulti non è concesso cogliere. Così come doveva avere il suo perché quella filastrocca che diceva:
“Ciansi nonna in sciu barcunn,
conn-a ramma de cetron,
a mamà a te scigua
e u papà te tia a cua.”
Le lacrime di una nonna alla finestra con in mano uno spicchio di arancia (un dettaglio del tutto trascurabile questo), erano un modo per calmare i miei pianti.
Anche oggi le lacrime si sono fermate. Quella nonna e quella nipote sono ancora sedute sulla panchina dove le avevo lasciate anni fa e, nella calma che racchiude l’infinito, continuano a tenersi per mano. E sono anche altrove, a seguire nuove strade, altri discorsi, diverse persone, per sempre unite in un battito di cuore.
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Che bei ricordi, Melania. In dialetti diversi, tutti noi abbiamo filastrocche da ricordare. E chi non le ricorda dovrebbe sforzarsi per farle riaffiorare alla coscienza. Sarebbe un esercizio di vita impagabile. Brava!
Grazie di cuore Antonio!
Questo testo è di una bellezza disarmante. Per semplicità, citerò solo una frase, che, forse, più di tutte mi ha colpito: “La felicità, in quegli istanti, diventava commestibile.”
Ecco, credo che in questa frase sia racchiusa buona parte dei ricordi d’infanzia di tutti noi ed è proprio per questo, per la capacità di rendere così partecipe il lettore, che questo racconto è così speciale.
Bravissima!
Grazie di cuore Giuseppe, mi hai emozionato con questo commento!
Che splendore Melania, hai un modo di scrivere che semplicemente incanta, nel senso letterale del termine.
Grazie Roberto, le tue parole sono sempre splendide!
Vero, un racconto dolcissimo e aggiungerei anche riflessivo. Ho anche io quel rapporto memoria/luogo e persone. Un pezzo molto personale. Per il resto sai scrivere. Brava!
Grazie di cuore Giuseppe, per aver letto e apprezzato anche questa storia!
“Io e nonna Dina seguivamo le stagioni”
Un racconto dolcissimo, una fotografia d’altri tempi, come quelle cui ci hai abituati con la tua splendida scrittura. Commovente l’immagine della bimba con la nonna sedute sulla panchina, osservate da una giovane donna che fruga nella sua valigia dei ricordi. Aggiungo che la tua scrittura è scorrevole, piacevole, essenziale, ma allo stesso tempo esaustiva. Ci racconti tutto quello che dobbiamo sapere. Bravissima
Grazie di cuore Cristiana, per aver letto e apprezzato una serie di ricordi. Hai usato parole bellissime, un grande regalo per me, ti ringrazio tantissimo♥️
Bellissimo il finale, questo modo in cui in un certo senso continuiamo ad esistere sotto infinite forme anche quando non ci siamo più, anche quando cambiamo, anche quando ci lasciamo, anche quando cresciamo. Mi hai commossa. Usi parole e gesti semplici, ma arrivi dritta nel profondo, dove i sentimenti e le persone che abbiamo amato sopravvivono al di là di ogni cosa.
Non sono ben sicura di aver colto l’intero senso della filastrocca, con i dialetti sono un po un disastro, ma ci stava benissimo 🙂
Grazie per aver condiviso questo meraviglioso ricordo!
Ciao Dea, grazie di cuore per le tue parole bellissime!
Ero dubbiosa se pubblicare questa storia, essendo molto personale temevo potesse risultare noiosa, ma sapere che ti ha emozionato mi rende davvero felice!
Sai credo che sia proprio il fatto che questo racconto sia una parte intima di te, a renderlo ancora più speciale!
♥️
In quanto alla filastrocca, capisco che non tutto fosse chiaro, anche su quello sono stata indecisa, se aggiungere o no la traduzione. Avendola spiegata in parte, però, ho pensato che potesse essere sufficientemente chiara.
Grazie davvero!