Chiara

Con la testa rivolta all’indietro lascio che il sole fenda in due la faccia, che ne riveli le rughe solcate dalle espressioni più che dal tempo. Provo intanto a riprendere fiato, mentre le mani bruciano e gli occhi pure, mentre le gambe tremano e il mento le segue. Trattengo un’esplosione. Implodo. Un verso appena udibile, un lampo, ne rivela la deflagrazione. Mi fa male tutto. Mi piego in due, ma non piango. Lo so, lo so bene che in pubblico non si piange. Figurarsi da adulti. Da bambini, talvolta, è tollerato ma è  pur sempre una seccatura.

«E no no no, ora non metterti a piangere. I bambini bravi non piangono, lo sai. Continui? Cosa c’è? Se non la finisci subito te lo do io un motivo vero per piangere»

Quante volte me lo sono sentita dire? Non ne porto il conto e, a ben pensare, che motivi ho per piangere?

Guardo la valigia. Ora che sono seduta mi arriva alle spalle. Mi chiedo come ho fatto a trascinarla fino a lì. Le mani bruciano. Sono anni che la trascinano. Si schiudono a malapena avvezze a quella contrazione, alla similpelle del manico e quasi non si accorgono ora, di premere sulle guance.

Come sono goffe le mie mani sulle guance. Una carezza sgraziata, una promessa abbozzata di felicità. Provo tenerezza. E indulgenza. E compassione.

Ci hanno provato a farmi sentire inadatta. E per un po’ ci sono anche riusciti. Con pazienza e dedizione hanno cercato di farmi intendere che è bene salire sul carro dei vincitori, che il treno della vita passa una volta sola, che il valore conta, ma il conto conta assai di più. Che vincere, sgomitare o quantomeno difendersi sia una condizione esistenziale imprescindibile. Scappare mai. Scappare è il marchio indelebile dei reietti. Dei falliti. Degli inetti. Di quelli con la testa altrove e il capitale umano come unico capitale disponibile.
Che scemenza!

Da oltre quarant’anni vedo treni della vita che, incredibilmente, continuano a passare. Prenderli non è più un’opportunità, perderli invece resta una possibilità. Capirlo è stato facile. Accettarlo è stato un viaggio, talvolta assai difficile. Questa valigia ne è la prova: ingombrante, piena di doveri supposti, aspettative imposte, rabbia e sensi di colpa. La guardo ancora una volta, con disprezzo e tenerezza. Intanto il tintinnio della campana annuncia il treno.

Mi alzo, mentre lo strepitio dei freni mi stordisce, mentre le porte si spalancano sull’ennesima promessa di un futuro radioso, ci infilo dentro la valigia e saluto. Aspetto che si diradi alla vista. Voglio essere certa che non torni indietro o che qualcuno non me la la rilanci appresso dal finestrino. Allora il capostazione potrebbe iniziare a domandare:

«Scusate, qualcuno ha perso questa valigia?»
«Sì, è della signora in piedi accanto alla panchina. L’ho vista metterla a bordo.»
«Signora è sua questa valigia?»
«No, guardi. Lei si sbaglia di grosso.»

Sospiro.

Nessuna valigia. Nessun capostazione.

«Bene», mi dico, «la valigia ce la siamo tolta dai piedi. Ora siamo solo io e te. Siamo l’unico posto in cui vale la pena restare. Siamo a casa.»

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Discussioni

  1. Fin dalle prime righe, parole, uso delle punteggiature risulta chiaro quanto tu sia brava a scrivere, c’è molta emozione in ciò che trasmetti e descrivi, tenerezza nelle uso delle parole per voler esprimere. Davvero complimenti.

  2. Ci sono dei passaggi molto belli e toccanti. Per il mio gusto, è un tantino criptico… benché arrivino piuttosto chiaramente l’introspezione della protgonista e il desiderio di liberarsi del suo fardello di rimpianti attraverso la metafora della valigia, sento la mancanza di un contesto che mi porti a comprendere chi è e cosa le sia successo. Beninteso: è solo il mio parere, ti ringrazio per la lettura

  3. Cambiare davvero. Ho interpretato così il tuo racconto. Fino ad un certo punto della vita il cambiamento è frenato dalla zavorra, dalla paura. La fisicità della valigia, il suo peso, le mani che bruciano la fanno percepire come reale, tangibile, fino al momento della svolta.
    Bello.