Come Rocky

Mentre studiavamo al primo anno fuoricorso all’università, il mio amico Alberto, notoriamente fissato con Sylvester Stallone e Rocky, mi fece: «No, stupendo, lo so io che sport facciamo quest’anno!»

Alzando la testa dal tomo di diritto penale, provai timidamente a replicare: «Ricordi come è andata l’anno scorso col Kung fu?»

«In che senso?» Alberto mi scrutò come se stessi parlando di un tempo lontano lontano.

Alzai gli occhi al cielo. «Che ci hanno gonfiati di botte, Alberto. Ecco come è andata. Te lo ricordi, sì?»

Alberto oppose alle mie più che comprovate rimostranze la sua solita risata cavallina, tipica di quando voleva sdrammatizzare.

«No,ihih, no, questa volta è moolto meglio, vieni con me.»

Lo seguii poco convinto ma disposto a tutto pur di non studiare.

Poco dopo ci ritrovammo davanti a una palestraccia di periferia. Di quelle alla vecchia maniera. Un prefabbricato in metallo con le rifiniture in puro eternit sperduto nel nulla, con le finestre rettangolari aperte sia d’estate che d’inverno. All’ingresso ci si fece incontro la versione locale di Mickey Goldmill, il famigerato allenatore di Rocky, un ottantenne con la faccia da mocassino, un berretto di lana blu in testa e un cappotto scozzese a scacchi neri e rossi fuori produzione dal ‘79.

Il vecchio ci passò in rassegna, scrutandoci dal basso verso l’alto.

«Ma quant’anni ciavete??»

«Ventisei» replicammo noi timidamente, lanciandoci delle occhiate d’incoraggiamento.

Mickey alzò il sopracciglio, ci squadrò nuovamente, poi grugnì: «Uhm, venite»

All’interno la palestra era completamente deserta, e alquanto spartana. Per terra c’erano pochi attrezzi per la pesistica, il tutto buttato un po’ là a caso. Lungo la parete destra pendeva qualche saccone rattoppato con dentro la segatura e, al centro del prefabbricato, un ring scalcinato.

Le nostre narici furono subito aggredite da un micidiale tanfo di cane bagnato.

Mickey con un ringhio ci indicò gli spogliatoi.

Davanti agli armadietti guardai Alberto. «Ma siamo sicuri?»

Ma Alberto aveva perduto lucidità, estasiato da una palestra che gli rievocava nella testa le gesta dello stallone italiano.

Posammo le sacche e ci ripresentammo con due tutine della Adidas anni ‘70.

«Ma come vi siete conciati?» strabuzzò gli occhi il vecchio «Vabbè, intanto un’ora di corsa, marsch!»

«Dove?» chiedemmo smarriti.

«Cristo! Fuori, lungo l’argine del fiume, forza-forza-forza!» rispose il vecchio con la vena sulla tempia pronta a esplodere.

Dopo un’ora di corsa in silenzio tornammo con gli occhi fuori dalle orbite, la milza in fiamme, e il cuore che pensava: Ma voi siete scemi.

Mickey, masticando un mezzo toscano, ci guardò scuotendo il capo.

Poi berciò: «Ora… sul ring!»

A quel comando gli occhi di Alberto si illuminarono.

«No, stupendo, come Rocky, come Rocky»

Ingenuamente chiesi i guantoni, ma il vecchio mi guardò come se gli avessi offeso la madre. «I guantoni?? Naaa! Ora ci sono gli addominali!!»

Seguì un’altra ora di addominali. Fatti sull’estremità del ring, con quel cazzo di vecchio sdraiato sopra le nostre gambe che urlava: «Sup! Sup! Sup!» e noi che ci tiravamo su con l’addome nel vuoto.

Altro bagno di sudore.

Finita quell’ora interminabile, il vecchio bastardo ci obbligò all’ulteriore novità: «E ora… al sacco!»

«Mi scusi, tetrarca, ma noi dovremmo andare…» tentò di dire Alberto col fiatone e le lame roventi nella pancia.

«Al saccooo!»

Seguirono altri sessanta minuti di sacco.

Paralizzati dall’acido lattico, con la vista annebbiata, non potendo più alzare le braccia iniziammo a morderlo quel cavolo di sacco di merda.

Col pazzo accanto che sbraitava: «Sup, sup, uppercut, schiva, ‘rcoboia!» mentre torceva il tronco e dava dei pugnetti a degli avversari immaginari.

Dopo tre ore di allenamento furibondo l’allenatore, finalmente, si placò.

Tornammo negli spogliatoi devastati, senza emettere un fiato, e soprattutto senza guardarci. Mai.

«Domani alle 16 e 30. Oh, puntuali, eh!»

«Sì, sì, signor satrapo» rispondemmo con un filo di voce.

Una volta raggiunti gli scooter, Alberto ed io farfugliammo qualcosa salutandoci a malapena. E poi via.

Il giorno dopo mi presentai in palestra con largo anticipo.

Tante volte il vecchio s’incazzasse, non si sa mai.

Alle 16 e 30 di Alberto neppure l’ombra.

E così neppure alle 16 e 40.

Mentre stavo per fare dietrofront, silenzioso come un furetto, il vecchio sbucò dalla palestra: «Ehi tu, bestione, inizia a correre»

«Guardi, gran visir, aspetto un attimo il mio amico che…»

«Corri, porcaputtana!»

Iniziai a correre, bofonchiando come Muttley.

Seguì un allenamento ancora più pesante di quello del giorno prima, perché c’ero solo io e il vecchio – nel suo delirio – s’era messo in testa di preparami per il titolo mondiale dei pesi massimi.

Dopo altre tre ore, come ultimo esercizio, questa volta mi legò al soffitto a testa in giù e iniziò a lanciarmi delle noci di cocco nella schiena, gridando «Schiva, schiva, schifa!»

Finita Tana delle tigri, con la schiena spezzata, mentre arrancavo verso casa presi il mio Nokia 3310 e chiamai Alberto.

Mi rispose una voce serafica che stava masticando qualcosa, in sottofondo la sigla di Happy Days.

«Pronto?»

«Maddove cazzo sei finito? Assassino, delinquente, giuda!»

«Chomp, chomp. No, ma…ieri era solo per provare. Il giorno di prova. Non mi dire che tu ci sei ritornato sul serio. Ihih. Assurdo. Crunch.»

A tutt’oggi, per la nostra mancata carriera di pugili, non esiste nessuna rimostranza ufficiale da parte del mondo della boxe.

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Discussioni

        1. Impossibile non ricordarlo mentre, coi ginocchi inspiegabilmente insanguinati, zampettava sulle fasce del campo di calcetto con le sue gambe da gru.