Commento a “La Civiltà del gerundio” di Lorenzo Varesi
Serie: ATLANTE DELLE TERRE SOMMERSE
- Episodio 1: INTRODUZIONE
- Episodio 2: Osservazioni preliminari sull’autoconsapevolezza dei sogni residuali
- Episodio 3: Teoria della Corruzione delle Memorie Collettive: una ricerca neurosemiotica
- Episodio 4: Indagine paleolinguistica sulle prime menzogne non verbali
- Episodio 5: Catalogazione delle specie concettuali estinte: tracce di una patologia semiotica?
- Episodio 6: Microrganismi semiotici: prime prove di vita simbolica autonoma
- Episodio 7: NOTE DI REVISIONE*
- Episodio 8: Note dal romanzo “Rumorenero – Biografia irregolare di Enea Roche Rocchetti”
- Episodio 9: Il crollo di Ithra*
- Episodio 10: DUE BOZZE PER WIKIPEDIA*
- Episodio 1: Il Collasso narrativo di San Velario
- Episodio 2: ELZEVIRI*
- Episodio 3: Recensione di “Infinito Anteriore” di Elia Morsiani
- Episodio 4: Commento a “La Civiltà del gerundio” di Lorenzo Varesi
STAGIONE 1
STAGIONE 2
a cura di Giorgio Traüber
Quando mi è giunto tra le mani il saggio dell’etnolinguista Lorenzo Varesi, reduce dalla spedizione che ha portato alla scoperta del popolo Kachuy – così lo studioso li ha denominati –, ho creduto inizialmente di trovarmi di fronte a uno di quegli esercizi di erudizione estrema destinati più a stupire il lettore che a illuminare un fenomeno umano.
Mi sbagliavo.
La Civiltà del gerundio, infatti, non è solo un resoconto scientifico, ma un racconto vertiginoso su ciò che il linguaggio è, ciò che potrebbe diventare e ciò che rischia di non essere più.
I Kachuy abitano una zona marginale della giungla del Darién (la striscia umida e quasi inaccessibile che separa Panama e Colombia), terra di fango, liane e silenzi, dove persino ai satelliti sembra interdetto l’accesso.
La spedizione che li ha incontrati – promossa da un consorzio universitario europeo e appoggiata logisticamente da una ONG climatica locale – era partita con l’intento di mappare micro-comunità indigene non censite, e documentarne patrimoni orali prima della loro inevitabile estinzione culturale.
Nessuno, tanto meno Varesi, poteva prevedere ciò che avrebbe scoperto.
«All’inizio credevamo semplicemente di esserci imbattuti in un idioma sconosciuto,» scrive l’etnolinguista, «non pensavamo che presto ci saremmo trovati a studiare l’impossibilità stessa del linguaggio condiviso.»
Secondo il suo resoconto, ogni individuo dei Kachuy parlava una lingua completamente diversa da quella degli altri, non per variazioni dialettali o idiolettiche, ma per struttura logica, sintassi, fonetica, semantica.
Ogni sistema linguistico era modellato sulle capacità cognitive del parlante, sulla sua personalissima architettura mentale, come se la lingua fosse un organo interno, una protesi dell’intelligenza riservata solo a uno specifico corpo.
Varesi tentò, con la pazienza del pedagogo e l’umiltà dello scienziato, di insegnare loro l’inglese e lo spagnolo.
Ogni tentativo fallì.
Non per ostilità, né per incapacità, ma per un’impossibilità strutturale:
«Era come cercare di innestare un alfabeto su una creatura priva del concetto stesso di alfabeto. Non rifiutavano la nostra lingua: la loro struttura mentale la rendeva inconcepibile.»
Questi idiomi, scrive Varesi, non consentivano apprendimento esterno.
Erano sistemi chiusi, autosufficienti, adattivi, che isolavano l’individuo e al contempo lo rendevano lucidissimo, quasi iperconsapevole della realtà circostante.
I Kachuy vivevano insieme, lavoravano, si muovevano nello stesso spazio, ma senza comunicare.
Non potevano farlo. Eppure parlavano.
«E allora perché parlano?» si domanda l’etnolinguista, in uno dei passaggi più intensi del testo.
«Se nessuno può comprendere l’altro, se la parola – non nel suo esito sociale ma nella sua origine – è già condannata al monologo, quale funzione resta al dire?»
Per anni, Varesi registrò suoni, strutture, ripetizioni, comportamenti sincronici.
Fino a che non giunse alla conclusione più sconvolgente: non si trattava affatto di idiomi diversi.
Era un’unica, molteplice lingua che si presentava eternamente diversa, come uno specchio che riflette solo ciò che lo guarda.
Una meta-lingua organica, fluida, che assumeva la forma psicologica dell’individuo che la utilizzava.
Da quella Babele, Varesi estrapolò un’unica certezza (più logica che empirica): per i Kachuy esisteva un solo tempo verbale. Il gerundio.
«Loro non dicono ‘io sono’ o ‘io ero’, ma ‘io essendo’, ‘io camminando’, ‘io percependo’. La loro realtà non è mai compiuta né futura, dato che non posseggono un concetto di linguaggio collettivo. E una società che non comunica non può sedimentare memoria. Per i Kachuy, essere coincide con stare accadendo.»
Il gerundio, quindi, come stato ontologico, come perenne presente in trasformazione.
Un linguaggio che non descrive il mondo, ma lo attraversa.
Nell’ultima parte del saggio, Varesi si abbandona a una speculazione di carattere filosofico.
Egli ipotizza che il linguaggio umano tradizionale abbia bisogno dell’ambiguità per funzionare: solo ciò che non coincide perfettamente con chi parla può essere compreso da chi ascolta.
L’indeterminazione diventa ponte, la vaghezza diventa possibilità d’incontro.
«La parola deve allontanarsi dal soggetto per potersi avvicinare all’altro. Deve divenire luogo neutro, spazio equidistante dove due individualità possano riconoscersi senza annullarsi.»
E qui, come lettore e come cittadino del nostro tempo, non posso che spingere oltre questa riflessione.
Se i Kachuy rappresentano un estremo biolinguistico dell’isolamento perfetto, cosa dire della nostra società iperconnessa, dove gli algoritmi profilano desideri e personalità, costruendo per ciascuno un linguaggio su misura? Dopo i social interattivi e le reti globali, ci attende forse una nuova era in cui ognuno abiterà un mondo comunicativo perfettamente calibrato su se stesso?
Forum chiusi, realtà aumentate, dialoghi alimentati da AI che simulano comprensione senza mai richiederla davvero. Amicizie, amori, comunità interamente artificiali, in cui l’altro diventerà sempre più un intruso. Un corpo estraneo da espellere.
Il domani potrebbe essere una costellazione di monadi comunicative, universi autosufficienti in cui ognuno parlerà una lingua perfetta e incomunicabile all’altro, adatta solo ai propri fantasmi.
Come i Kachuy.
E allora, forse, la grande lezione de La Civiltà del gerundio non riguarda unicamente il passato remoto di una tribù dimenticata, ma anche il futuro della nostra specie: un’Umanità d’individui che non smetteranno mai di parlare, pur facendolo sempre più da soli.*
*VERBALE DI SEQUESTRO PROBATORIO E COMUNICAZIONE DI NOTIZIA DI REATO
Comando Provinciale Carabinieri di Milano.
Verbale n. 987/2025
L’anno 2025, il giorno 28 del mese di febbraio, in Milano, alle ore 10:35, i sottoscritti militari del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale Carabinieri di Milano, in servizio di polizia giudiziaria, a seguito di attività info-investigativa delegata dall’Autorità Giudiziaria, procedevano presso la sede della tipografia Litostampa Insubrica S.p.A., sita in Milano, via Guglielmo Ronchetti n. 9.
Qui, in relazione agli accertamenti concernenti la scomparsa del sig. Giorgio Traüber, veniva acquisita e sottoposta a sequestro probatorio copia cartacea del manoscritto intitolato “Atlante delle Terre Sommerse”, opera in corso di pubblicazione, dichiaratamente redatta dal sig. Giulio Traüber, nato a Bolzano il 14/09/1965 e ivi residente in via Felice Casati n. 18.
Dall’esame preliminare del succitato manoscritto emergevano numerosi riferimenti espliciti alla morte e all’uccisione del suddetto Giorgio Traüber, con descrizioni contenute sin dalle parti introduttive e in varie note a piè di pagina.
Si rilevava, inoltre, come tali contenuti risultassero redatti in data antecedente alla denuncia ufficiale di scomparsa presentata dal familiare stesso in data 12/02/2025, circostanza confermata anche dall’analisi dei metadati informatici relativi ai documenti digitali nonché dalle dichiarazioni rese dagli operatori coinvolti nelle fasi di prestampa.
Ulteriori elementi acquisiti evidenziavano:
pregresso rapporto conflittuale tra i fratelli Giulio e Giorgio Traüber, desumibile da appunti personali, bozze e materiali letterari precedentemente diffusi;
testimonianze di soggetti informati sui fatti che riferivano un atteggiamento compiaciuto e anomalo da parte del Giulio Traüber nella gestione pubblica degli affari del congiunto scomparso.
Il sig. Giulio Traüber, escusso in via informale, dichiarava testualmente:
“Avevo già pensato di scrivere una biografia di mio fratello. La scomparsa era solo un espediente narrativo. Non pensavo che sarebbe avvenuta sul serio.”
Alla luce di quanto sopra, il manoscritto veniva sottoposto a sequestro probatorio ai sensi dell’art. 253 c.p.p. e posto a disposizione dell’Autorità Giudiziaria competente.
Contestualmente, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano disponeva l’iscrizione di notizia di reato a carico del sig. Giulio Traüber nel registro di cui al modello 21 per il reato previsto e punito dall’art. 575 c.p. (omicidio volontario), con riserva di ulteriori accertamenti.
Letto, confermato e sottoscritto.
Milano, 28/02/2025
IL VERBALIZZANTE
T. Col. M. Bernardi Comando Provinciale Carabinieri di Milano
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- Episodio 1: Il Collasso narrativo di San Velario
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Ciao Nicholas, un altro episodio bello intenso. Giulio Traüber è l’incarnazione perfetta della sua stessa riflessione: “un’umanità d’individui che non smetteranno mai di parlare, pur facendolo sempre più da soli”. Ha parlato, ha scritto, ha creato un mondo narrativo così totalizzante da rimanerne intrappolato, completamente solo con la sua storia e il suo (ipotetico) crimine. La sua “lingua perfetta e incomunicabile” che nessuno (a parte la polizia) avrebbe potuto comprendere nel suo significato più sinistro.
Hai colto la natura speculativa (e speculare) del libro. Col prossimo episodio (se non dovrò dividerlo in due per motivi di lunghezza) si spiegherà tutto (e credo sarà un colpo di scena). Grazie mille per la lettura e per i preziosi commenti🙏🏻🤗
“Contestualmente, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano disponeva l’iscrizione di notizia di reato a carico del sig. Giulio Traüber nel registro di cui al modello 21 per il reato previsto e punito dall’art. 575 c.p. (omicidio volontario), con riserva di ulteriori accertamenti.” Ma è scomparso vero? non avevano trovato il corpo?
Ciao Tiziana! Sì, è scomparso. Dici che è plausibile? Io faccio ricerche su ricerche, ma poi magari faccio errori madornali😂
In generale il Pubblico Ministro può formulare l’imputazione che crede, è plausibile. Il processo, però, è bello tosto. Ho letto il tuo episodio durante la pausa, ho sollevato il quesito tra i miei colleghi: il finimondo. La giurisprudenza riconosce la possibilità e ci sono anche diverse condanne per omicidio volontario anche se non si ritrova il cadavere, la dottrina è più varia. Sempre più colpita dal lavoro che c’è dietro la tua storia.
Questo messaggio mi rincuora 😂 Sono sempre felice quando si creano dibattiti, e ti ringrazio per il parere e per la condivisione della tematica con altri colleghi🙏🏻
“«Se nessuno può comprendere l’altro, se la parola – non nel suo esito sociale ma nella sua origine – è già condannata al monologo, quale funzione resta al dire?»”
A volte mi faccio la stessa domanda. Con alcuni colleghi ho lo stesso problema😂
A chi lo dici! 🤣
Il brano apre con una scoperta antropologica, quella del popolo dei Kachuy e prosegue con una riflessione sul linguaggio e sulla solitudine moderna.
L’idea centrale è che ogni Kachuy parli una lingua diversa, costruita sulla propria mente, impossibile da condividere. Il loro unico tempo verbale, il gerundio, rappresenta un presente continuo senza passato né futuro, perché, a mio avviso, senza comunicazione non può esistere memoria comune.
Ho interpretato questa immagine come una metafora del nostro tempo: in un mondo pieno di tecnologie personalizzate e comunicazioni su misura, rischiamo anche noi di chiuderci in lingue “individuali”, incapaci di capire davvero gli altri. Forse, è qui che andrebbe recuperata la letteratura classica, universale, che parla un linguaggio comune.
Il brusco cambio finale, il verbale dei Carabinieri sulla scomparsa di Giorgio Traüber, aggiunge un tono da giallo e mostra come la storia linguistica sia legata a un mistero familiare, dove realtà e finzione si confondono e la comunicazione si rompe persino tra due fratelli.
Credo che il tuo testo ci lanci un avvertimento. Possiamo continuare a parlare, ma se perdiamo il senso dell’altro, finiremo per farlo sempre più da soli.
Grazie Nicholas per tutti questi spunti di riflessione derivati dalla lettura del tuo testo.
Ciao Cristiana! Grazie mille della lettura e dell’impeccabile analisi🙏🏻 La comunicazione (in tutte le sue forme ed estensioni) è uno dei temi principali di questa serie. L’incomunicabilità fra i due fratelli è il riflesso dell’incomunicabilità del mondo. Col prossimo episodio si arriverà all’epilogo🤗
Ciao Nicholas. Ecco le mie impressioni sul tuo testo che, più che mai ha un senso per me metaforico.
🙏🏻😊
“Il domani potrebbe essere una costellazione di monadi comunicative, universi autosufficienti in cui ognuno parlerà una lingua perfetta e incomunicabile all’altro, adatta solo ai propri fantasmi”: prospettiva terrificante, c’è molto su cui riflettere.
Ciao Arianna! Grazie mille della lettura!🙏🏻🤗
Io, qui in Finlandia, mi sento un Kachuy. Parlo una lingua mia: non è più italiano e non è nemmeno finlandese 😅
Io mi sento così in Italia😂 Comunque ho letto da qualche parte che il finnico è una lingua difficilissima, quindi: tanta stima!😊
Per quanto riguarda la prima parte, sarà che io vivo con la sensazione di star parlando da sola da anni, ma ho avuto una sensazione di dejavù, e mi sono sentita molto gerundiese pure io…
Per quanto riguarda la seconda, mi sono segnata la frase dell’episodio precedente:tutti finiamo divorati dalle nostre narrazioni.. e il senso della scomparsa di Giorgio secondo me viene da li…
Per la seconda parte: Ottimo! Vuol dire che sto facendo un buon lavoro! Il finale dunque sarà qualcosa di completamente inaspettato!😆
“un’Umanità d’individui che non smetteranno mai di parlare, pur facendolo sempre più da soli.*”
Perdonami se non è la riflessione che ti aspettavi sarebbe arrivata, ma. Leggevo con questo sassolino nella scarpa e proprio non c’era verso di levarmelo.
Cioè. Non lo stiamo facendo gia? Ma quando mai ci siamo capiti su questa terra pur parlando la stessa lingua? Io dico ciò che voglio dire e chi mi sta di fronte capisce ciò che vuol dire, e questa roba della comunicazione è soltanto un vizio, un tentativo di camuffare che parlare la stessa lingua, qualsiasi sia, è umanamente e oggettivamente impossibile fino a che ci sara’ un individuo che la filtra a seconda del suo sentire e un altro che recepisce a seconda del proprio. Tanto vale fare come gli aborigeni. Tanto vale un futuro dove ognuno si chiude volontariamente in un linguaggio tutto suo.. ..(forse sto straparlando, ma questi qui che vivono estraniati dal mondo, senza comunicare, mi hanno ricordato uno scenario futuro che mi sembra di star vivendo già).
* Io dico ciò che voglio dire e chi mi sta di fronte capisce ciò che vuol capire (refuso😅)
😂
Sìììì 😬 Ho voluto usare una distopia (o un’utopia?) per parlare di ciò che già accade (e che s’intensificarà) nel mondo. Chiaramente l’elemento autobiografico è totale (sono 40 anni che parlo unicamente coi miei fantasmi), ho solo voluto universalizzato. Ma siamo sicuri che sia sempre stato così? Io ho l’idea mitica di un’antica comunicazione fatta di gesti, espressioni, suoni che, pur con tutte le ambiguità del caso, ha contribuito alla costruzione della realtà condivisa in cui ancora (temo per poco) tutti noi viviamo. Anzi: credo che l’ingegno sia proprio il frutto di tutti i malintesi che la comunicazione porta con sé. E magari, con una perfetta intesa – come con una perfetta incomprensione – nessuno avrebbe costruito nulla, perché non ci sarebbe stata la spinta a superare quella barriera.
Forse è solo una mia illusione, ma sento che oggi ogni cosa si sta allontanando.
Appunto. Una perfetta intesa di gesti, suoni, sensazioni (silenzio, soprattutto) basata sulla consapevolezza che il linguaggio è alla base della non comunicazione, perché errato. Passa dal filtro cerebrale. E non ve bene. I suoni, gesti, le sensazioni invece non hanno filtro…e infatti comunicano. Cioè, non comunicando, comunichiamo.
Non ci avevo pensato, però in effetti è la naturale conseguenza logica di questo episodio: maggiore complessità di linguaggio = maggiore difficoltà di comunicazione. Tanto ragionevole da fare il giro, fino a diventare paradossale👏🏻
Sìììì 😬 Ho voluto usare una distopia (o un’utopia?) per parlare di ciò che già accade (e che s’intensificarà) nel mondo. Chiaramente l’elemento autobiografico è totale (sono 40 anni che parlo unicamente coi miei fantasmi), ho solo voluto universalizzato. Ma siamo sicuri che sia sempre stato così? Io ho l’idea mitica di un’antica comunicazione fatta di gesti, espressioni, suoni che, pur con tutte le ambiguità del caso, ha contribuito alla costruzione della realtà condivisa in cui ancora (temo per poco) tutti noi viviamo. Anzi: credo che l’ingegno sia proprio il frutto di tutti i malintesi che la comunicazione porta con sé. E magari, con una perfetta intesa – come con una perfetta incomprensione – nessuno avrebbe costruito nulla, perché non ci sarebbe stata la spinta a superare quella barriera.
Forse è solo una mia illusione, ma sento che oggi ogni cosa si sta allontanando.
Certo che, se continueremo a parlare solo con l’algoritmo dell’AI, in futuro ognuno di noi avrà un modo personalissimo di parlare. Senza dubbio, l’AI comprende meglio degli umani, non ha bisogno di farsi spiegare troppo un argomento e va oltre i possibili errori che commettiamo nell’esprimerci. Ma è proprio questo il rischio: non fare nessuno sforzo per comunicare con i propri simili quando invece si dovrebbe cercare di ritornare a una lingua unica: pre-Babele.
In quanto a Giulio Traüber, poteva andargli peggio ed essere accusato di omicidio premeditato. Bravo, Nicholas!🙂
Ciao Concetta! Grazie mille per la lettura!🙏🏻 Questo episodio vuole ribadire il senso della serie: la chiusura di ogni individuo in un proprio mondo e la perdita graduale delle coordinate per recuperarci. Ora inizio a far trasparire il senso dell’Atlante. Nel prossimo episodio (il finale, se riesco a far stare tutto in una puntata) ogni cosa sarà chiara (spero) 🤗