Controcanto

Serie: Hýlē


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Un’idea primordiale nasce in un non-luogo e viaggia nello spazio tra mondi, insidiata da residui e ombre. Isen veglia sul suo percorso, cercando un tramite nell’Hýlē. Rea, in una città futura, riceve un frammento musicale sconosciuto. Lo suona e inizia a percepire l’invisibile.

Il centro era affollato.

Le auto a sospensione sfilavano a distanza regolare lungo le linee luminose. Gli avvisi olografici ondeggiavano sopra le panchine.

I tavolini dei bar si aprivano a raggiera intorno alla piazza del Gesù Nuovo. Satelliti attorno a una massa che non si muoveva mai.

Una volta l’avrebbero chiamata primavera, ma le stagioni scomparvero e nessuno se ne accorse.

Rea era seduta accanto a Dorian.

Lui parlava. Lei annuiva distratta, senza davvero seguire.

Ogni tanto sorrideva, faceva finta di esserci, ma la testa era altrove.

I suoi occhi — scuri, troppo grandi per il viso — seguivano i margini della piazza senza messa a fuoco.

Aveva un corpo magro, nervoso. Mai del tutto fermo, nemmeno nell’immobilità.

Le mani erano segnate. Dita sottili, vive.

I capelli corti lasciavano scoperta la nuca. Abbassava spesso lo sguardo, come per difenderla.

Ogni tanto si toccava il polso. Un gesto lento, involontario. Una memoria corporea, cicatrice invisibile che nessuno poteva vedere, ma che lei portava in ogni movimento.

Di fronte a lei, la chiesa.

L’aveva vista mille volte.

Bugne scure. Pietre incise, antiche quanto l’aria.

Ma quel giorno quelle linee sembrarono cambiare direzione.

Non davvero. Solo agli occhi di chi sapeva guardare.

Notò un disegno.

Poi, un altro.

Uno schema. Uno spartito. Lo stesso che aveva suonato qualche giorno prima.

Si alzò, lentamente.

L’altro la guardò perplesso, ma non parlò. La seguì solo con gli occhi.

Lei si avvicinò alla pietra.

Sfiorò la superficie con le dita.

Sentì una vibrazione. Nascosta. Intatta.

Un rumore lontano attraversò la piazza.

Un richiamo d’acqua da una fontana a secco.

Si voltò di scatto.

L’ombra sulla piazza si stava allungando.

Dal punto in cui si trovava, poggiando la schiena al bugnato, alzò lo sguardo verso l’obelisco al centro della piazza.

La Madonna, in cima, non era più la stessa.

Il velo si increspava, sebbene non ci fosse vento.

La luce colpiva da un angolo strano, irreale.

Sembrava immobile, eppure stava cambiando.

Il velo le scese sul volto, poi sulle spalle.

Divenne un cappuccio.

Le pieghe della veste si assottigliarono, presero la forma di ossa.

E tra le mani, da un nulla che nessuno avrebbe saputo descrivere, apparve una falce.

Nessun altro guardava. Nessuno si fermava.

Distolse lo sguardo solo quando la luce si abbassò.

Un istante. Forse meno.

Quando tornò a guardare, la statua era di nuovo quella di sempre.

Velo. Volto. Grazia rigida del marmo.

Non sapeva se aveva visto, o ricordato.
Solo il cuore — per un momento — sembrava fuori tempo.

Si rimise a sedere.

«Tutto bene?»

Lei annuì senza pensarci troppo.

Ma qualcosa, dentro, era cambiato.

Quella notte, Rea non dormì.

Si sdraiò sul letto, chiuse gli occhi. Ma il corpo non la seguiva.

Una linea sottile le passava dietro la fronte.

Cercò il silenzio, invano.

All’alba si alzò.

Camminò per casa.

Si avvicinò al piano e appoggiò le dita sui tasti.

Solo questo.

I polpastrelli sentivano la vibrazione ancora lì.

Polvere carica, pronta ad esplodere.

Si ritrasse.

Chiuse il coperchio lentamente.

Fece finta che fosse una sua scelta.

Un’idea era entrata nelle membra, ma non le apparteneva.

Non portava luce. Né salvezza.

Solo disordine.

Le cose intorno sembravano diverse.

Non cambiate. Solo, non più affidabili.

Il bicchiere sulla mensola sembrava osservare.

Le piante sul balcone si piegavano tutte verso di lei, anche se non c’era vento.

Fece per scrivere una frase su un foglio.

La mano tremò. Non era sicura che fosse sua.

Iniziò ad avvertire una paura primordiale.

Provò a scacciarla, a pensare ad altro.

«È solo suggestione…» si disse. «Pura immaginazione.»

Ma anche il corpo la contraddiceva.

Una stretta improvvisa al petto.

Una fitta nella schiena.

La pelle voleva aprirsi.

Quell’idea spingeva, ma lei non era pronta.

La verità non consola. Distrugge.

Cercò di resistere.

Fece piccoli gesti ordinari.

Lavò un piatto. Riordinò i fogli. Mise in carica il telefono.

Ma ogni gesto era un muro sottile.

Ogni silenzio, una preghiera al contrario.

Si fermò, come se stesse attendendo qualcosa.

Sola, con quella fragile ostinazione che hanno i vivi di non voler cambiare sé stessi.

La stanza sembrava più stretta, ma forse era solo il silenzio a spingere contro le pareti.

Sedeva immobile.

Il respiro corto.

Il corpo teso.

La luce — fioca, tagliata — rimbalzava sulla superficie del tavolo.

E lì, per un attimo, due riflessi si incontrarono.

Due presenze immobili, ai bordi dello spazio.

Isen era lì, da sempre.

Araziel era appena giunto.

I due non parlarono. Non si mossero.

Solo due sguardi intrecciati.

Il primo troppo chiaro per riflettere qualcosa. E l’altro, fermo. Un asse verticale piantato nella notte.

Rea non vide nulla.

Ma qualcosa in lei si strinse.

Il vuoto prima di una nota che non sai se arriverà.

Poi, la luce scivolò via. E con lei ogni cosa tornò al suo posto.

Almeno in apparenza.

Serie: Hýlē


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Discussioni

  1. Più che un brano scritto questo episodio mi ha ricordato un brano musicale, con le sue pause, il suo ritmo e la sua inconfondibile melodia. Continuo a seguire questa serie con molto piacere ✨

  2. Quando ho letto questo ho provato la sensazione che si prova quando qualcosa cambia, ma tu non sai cosa. Rea continua a colpirmi. È in mezzo alla gente, ma è come se fosse altrove.
    L’emozione che ho percepito più forte è la paura, quella che ti fa tremare senza motivo.
    Il brano è costruito come un crescendo emotivo e sensoriale e l’alternanza di frasi brevi e immagini poetiche tiene il ritmo sospeso. Molto bello e disturbante, nel senso migliore 🙂

    E poi quei due: Isen e Araziel. Uno c’era da sempre, l’altro arriva. Ma non fanno nulla, non parlano. Solo stanno. E anche questo mi ha toccata. Perché a volte le cose più importanti non succedono fuori, ma dentro. E succedono in silenzio.

    Alla fine ho sentito che Rea è al limite. Di un passaggio, di una soglia. E che tutto il resto è solo apparenza. Ma lei — anche se ha paura — resta lì. Con quella forza fragile che hanno solo i vivi, quelli veri.

    1. Ciao Cristiana, grazie di cuore per i tuoi commenti. Mi colpiscono sempre perché usi parole come “ho provato” e “ho sentito”, parli di quello che ti arriva davvero, senza limitarti a un’analisi tecnica. Ed è il tipo di feedback più prezioso che si possa ricevere, positivo o negativo che sia, perché ci permette di capire quali corde riesce a toccare la scrittura. Grazie ancora — spero che anche il resto del racconto possa darti nuovi spunti.

      1. Credo che, quando leggiamo, i tecnicismi vadano un po’ messi da parte. Chi siamo per esprimere un giudizio? Chi siamo per dire a un altro autore che il suo brano è corretto, perfetto, valido, non valido, incerto, inutile. Gli aggettivi sono tanti, la presunzione anche. Sono invece convinta che un brano o ti arriva oppure no. Inoltre, sono convinta che sia sempre gradito da parte di chi pubblica sulla nostra piattaforma ricevere un segno del passaggio di un lettore ed è quello che cerco di fare:) Fa bene a chi scrive e fa bene a chi legge. C’è sempre davvero tanto da imparare dagli altri.

    1. Ciao Kenji, in realtà nemmeno io l’ho studiato in ambito scolastico — mi sono avvicinato al greco e ad altre lingue antiche per motivi del tutto diversi. Anche se ho usato termini come Hýlē e Logos, più per il loro peso filosofico che per il significato linguistico, sto cercando comunque di mantenere il racconto su un piano più concreto (a parte i primi due capitoli). Secondo te risulta ancora troppo astratto? Grazie!