
CORTO CIRCUITO
Serie: Ritrovarsi...
- Episodio 1: L’Archivio
- Episodio 2: Nessuno in Ascolto
- Episodio 3: RI…CONOSCERSI
- Episodio 4: IN MEZZO AI VETRI
- Episodio 5: FILO SOTTILE
- Episodio 6: LA SCELTA
- Episodio 7: L’ORA DI FILOSOFIA
- Episodio 8: IL CASSETTO VIVO
- Episodio 9: LIVIA
- Episodio 10: CORTO CIRCUITO
- Episodio 1: LE AMICIZIE
STAGIONE 1
STAGIONE 2
Il sole tagliava di sbieco sotto la tettoia e faceva luccicare i mozziconi nel tombino.
Edo intercettò Andrea vicino al muretto dei fumatori, quello dove il bidello fingeva di non vedere.
Aveva la faccia di uno che ti confida un segreto, ma negli occhi un guizzo da “non indovinerai mai”.
«Oh, l’hai sentito il nomignolo nuovo?»
Andrea lo guardò come si guarda una porta che si è già deciso di non aprire.
«Sputa.»
Edo fece il gioco delle tre carte col peso: tallone, punta, tallone. Un attimo di teatro, poi la parola.
«Chicane.»
Quel suono cadde secco, e nello stomaco gli rimase un taglio vivo. Il respiro di Andrea si fermò un secondo, la pelle del collo pungeva, le mani già sudate in tasca. Gli venne perfino un accenno di riso, che gli morì subito, acido in gola.
Il cortile intorno non cambiò: pallone che batteva sul muro, il tonfo sordo di una lattina presa a calci, le voci che si accavallavano. Solo che per lui tutto rallentò. Come se un vetro spesso lo avesse chiuso dentro.
Edo abbassò la voce, teatrale: «Pare che Livia abbia raccontato in giro che… c’hai il cazzo a esse. Tipo pista di Formula 1.»
Due ragazzi, lì accanto, scoppiarono a ridacchiare. Uno tracciò nell’aria una curva con l’indice. Non guardavano Andrea, guardavano Edo, in attesa del suo applauso.
Serrò la mascella. Un mezzo passo verso di loro, riflesso. Si ritrasse. Le unghie nel palmo, nascoste in tasca.
Edo sorrise. Breve, trattenuto. Quasi niente. Ma bastò. Andrea lo vide.
Non era il sorriso di chi ti avvisa. Era il compiacimento di chi ti ha appena consegnato al branco.
Un corto circuito basso, nello stomaco, scintille che non si spegnevano. Non tanto per la parola. Per il modo. Con le nocche spazzò via una briciola dal muretto e ci si appoggiò come uno che ha tempo da perdere. Accennò uno sbadiglio, spinse un tappo di plastica verso la grata col piede. Si scostò di mezzo passo, lasciando che fosse la distanza a parlare.
«Che fantasia», disse piano, con la voce piatta come se commentasse il meteo.
Edo si avvicinò di mezzo centimetro. Odorava di spray alla menta che non copriva un cazzo.
«Oh, oh… io te l’ho detto perché siamo amici, eh.»
“Amici.” La parola gli scivolò addosso come l’acqua sulle panchine bagnate.
Si voltò. Lasciò Edo lì, con la notizia in mano come fosse un trofeo da buffet. Attraversò il cortile guardando a terra. Sentiva le risate dietro le spalle senza sentire le parole. Vedeva scarpe. Macchie di gomme masticate. Un piccione zoppo.
Ogni tanto succedeva: la scuola diventava un acquario. Lui dietro il vetro, a bocca aperta senza ossigeno.
A casa la luce della sua stanza era troppo bianca. Aprì la galleria del telefono. Scrollava come chi prende aria prima di un tuffo, sperando di non arrivare mai in fondo.
Poi l’immagine apparve subito, senza sforzo: Livia sul letto che non era mai stato romantico. Luci basse, posa studiata, bocca socchiusa. Non desiderio: sberleffo.
Andrea la fissò più del necessario. Sentì nello stomaco quel nodo che non era più rabbia, non era più voglia. Solo nausea.
Gli venne voglia di cancellarla. Non lo fece. Invece, spinse l’icona dell’inoltra.
Destinataria: Livia.
Scrisse lentamente, con il pollice che tremava:
Ho anche il video. Quello in cui la tua bocca è impegnata con la chicane. Basta un clic e lo vede tutta la scuola.
Restò a fissare lo schermo. Non l’invio, ma il tremito nelle mani. La parte di sé che lo stava guardando farlo.
Visualizzato.
Poi, a distanza di un battito: Stronzo.
Nessun punto esclamativo. Solo coltello.
Il silenzio dopo fu denso, colante. Andrea lasciò cadere il telefono sulla scrivania. Andò in bagno a sciacquarsi la faccia. L’acqua era troppo fredda. Meglio. Guardò lo specchio solo il tempo di riconoscersi e non si piacque. Tornò in cucina.
Aprì il rubinetto. Bicchiere sotto. L’acqua gli tremava in mano come se fosse inverno, ma non era inverno.
Sua madre era al tavolo. La tazza di tè fumava piano, un cucchiaino poggiato di traverso che vibrava a ogni minimo tocco. Il giornale era piegato davanti a lei.
Dal salotto la televisione sciorinava notizie di traffico, identiche a ieri e all’altro ieri: la città, come se non cambiasse mai.
«Che succede?» chiese, senza alzare lo sguardo.
«Niente.»
Lei ruotò appena il cucchiaino, facendo tintinnare la ceramica.
«Con me, “niente” non funziona.»
Il tono era piano, ma Andrea ci sentì dentro tutte le carezze che non c’erano state.
Andrea bevve. Il bicchiere gli coprì metà viso. Si prese quei due secondi, i soli in cui non doveva mostrarsi.
«Hai una faccia», disse lei, senza guardarlo.
Andrea riempì di nuovo il bicchiere e rovesciò l’acqua nel lavello. Rumore e basta.
«È la mia.»
«No, è quella di uno che pensa troppo.»
Lui fece spallucce.
«Non è illegale.»
Lei sollevò lo sguardo.
«No. Ma a volte fa più male di un pugno.»
Andrea abbassò il bicchiere sul tavolo.
«Non è niente di grosso.» disse. Un lampo breve le passò negli occhi e basta.
«Lo decido io se è grosso», disse. La bocca si sollevò appena, un’infiltrazione di affetto che gli arrivò diritto al petto.
Si guardarono un attimo.
Andrea ebbe quasi voglia di raccontarle tutto.
Quasi.
Lei gli allungò una ciotola.
« Ho fatto lo zabaione. Non è venuto bene, ma è lì.»
Andrea annuì. «Magari dopo.» Il grazie restò nel gesto.
Lei tornò al giornale, ma non lesse neanche una riga. Stava lì, in attesa.
Andrea uscì dalla cucina. Attraversò il corridoio come si attraversa un ponte sottile.
In camera aprì il cassetto. Il diario era al suo posto. Sempre nello stesso scomparto, come un animale che torna nella tana.
Lo tirò fuori. La copertina blu aveva un graffio nuovo, o forse c’era sempre stato e non l’aveva mai notato. Le cose, a volte, tengono memoria da sole.
«Tu non l’avresti fatto, Marco», disse all’aria, piano. «Ne sono quasi certo.»
Restò in piedi, il diario sospeso tra le mani.
Gli tornò addosso la scena: Livia in motorino, la curva dell’anca che gli spingeva il fianco, il vento che mescolava odore di metallo caldo e capelli. “Stringi!” gli aveva urlato nell’orecchio, e lui aveva riso.
Più tardi, in garage, le labbra gli avevano chiuso la bocca con un “non pensare” che era più ordine che bacio, un tappo infilato a forza. Per cinque minuti il mondo era stato carne che preme, saliva che cola, il rumore umido dei respiri mescolato all’odore acre di benzina. Quando si staccarono, non restò passione: solo un silenzio sporco, appiccicato addosso ed una macchia sul cemento, strofinata in fretta e rimasta lì lo stesso. Dentro, il vuoto che non se ne va.
Quando aveva cominciato a odiare il “non pensare”? Forse quel giorno.
Tornò al presente.
«E nemmeno io. Forse.» Fece una pausa breve, come per assaggiarla. «Ma l’averla minacciata… quello sì che mi fa schifo. Era la verità. L’aver replicato alla sua meschinità con la sua, mi ha reso uguale a lei.»
Appoggiò il diario sul letto. Restò a guardarlo. Poi lo riprese.
Ci passò le dita sopra, lente, come chi tocca un dente che dondola: sai che farà male, eppure non resisti alla tentazione di provarlo.
«Tu scrivi, Marco. Io reagisco. Male. Ma reagisco.» L’aria gli uscì dal petto in un soffio tagliato. «E preferirei anch’io scrivere.»
Si sedette alla scrivania. Il telefono sul lato, lo schermo che si illuminava da solo, come un occhio indiscreto.
Fece per aprire il diario. Non lo aprì. Lo richiuse meglio, quasi a proteggerlo da se stesso.
Si alzò. Andò alla finestra. Nel cortile, due ragazzini palleggiavano.
Uno urlò “mi devi la Coca” senza malizia.
Qualcosa, da qualche parte, funzionava ancora.
Tornò al letto e si distese con il diario sul petto. Non era peso, era gravità. Poco, ma implacabile.
Ogni respiro lo sollevava di un millimetro, come se il quaderno fosse vivo.
Un colpo leggero alla porta.
«Ti ho portato un tè», disse la madre, affacciandosi appena.
Posò la tazza sulla scrivania. Restò lì un attimo.
«Posso…» si fermò. «Posso abbracciarti?»
Restò con le mani attorno alla tazza, come se scaldasse anche la domanda.
Per un attimo il corpo stava per alzarsi da solo, le braccia già pronte a cedere. Ma la vergogna arrivò prima, fredda, e lo inchiodò al letto. Si girò verso il muro.
«Meglio di no.»
La porta si richiuse piano, come una mano che si ritira.
Il tè fumava ancora sulla scrivania. Un filo di vapore saliva lento, si sfaceva nell’aria come il suo rifiuto. Andrea lo seguì con gli occhi finché sparì nel buio. Restò lì un momento, il diario stretto al petto, come a reggersi da solo.
Solo allora parlò:
«Oggi no. Oggi basto io.»
Fuori, qualcuno chiamò “Mammaaa!” dal balcone di fronte. Una pentola urtò il lavello. Un cane abbaiò una volta sola. Piccole cose. Tenute insieme da niente.
Dentro, tutto. E un quaderno che pesava poco, ma più di lui.
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Mi ha ricordato certi passaggi Niccolò Ammanniti, ma anche Ferrante nei rapporti madre-figlio. Bravo.
@RoccoMalaparte Rischio un infarto con certi accostamenti! Però grazie di cuore: magari avessi solo un briciolo della loro bravura.
Stupendo! Diretto ma emozionante. Bravo
Tremendamente attuale.
Questo capitolo è forse il più bello e completo che tu abbia scritto fin ora in questa serie. Ci sono immagini che rimangono profonde e indelebili. Spero con tutto il cuore che tu possa trovare il modo di fare leggere questa storia a quante più persone possibili nel mondo.
Che bellezza leggere le tue parole! Non so se sia davvero il più bello finora, ma di certo è nato in un momento in cui avevo tanto da dire (e per una volta il “grande fratello” non aveva il controllo sulle mille parole). Se poi arriverà a più persone, tanto meglio… ma io mi accontento già di avere voi del sito come lettori assidui. Grazie Roberto.
Sono d’accordo, non penso sia una colpa, però é vero che se le cose ci feriscono o ci toccano in modo particolare, dipende anche dal nostro risentito personale.
Ammiro e invidio il tuo ardire nell’affondare il coltello o sferrare, con le parole, i pugni allo stomaco incassati dai personaggi. Colpi duri che possono essere risentiti, a tratti, anche dai lettori.
Credo che questa tua inclinazione nello scrivere sia uno dei motivi che danno forza alle tue narrazioni.
Grazie! È vero, ogni tanto affondo un po’ troppo… ma è il mio modo di scrivere, non riesco a edulcorare. Se i colpi arrivano anche a chi legge, è anche in parte per colpa tua! Quindi la responsabilità va condivisa!.
Ho sbagliato lo spazio in cui scrivere la risposta.
Bravo, Paolo! Un altro capitolo molto bello. Secondo me, la madre ha aperto il diario di Marco: il graffio sulla copertina e le sue materne attenzioni non sono casuali, ma forse mi sbaglio.
Paolo? Quasi quasi me lo segno come nome d’arte! A parte gli scherzi, con i tuoi commenti stai buttando lì spunti che mi fanno davvero riflettere… chissà, magari prima o poi qualcosa accadrà!
Scusaaaaa, Paolo, per lo sbaglio del nome.
Bravo! Non trovo altro da dire se non esternarti il piacere che provo nel leggere pagine ben scritte.
Grazie per essere passato, il tuo messaggio è già di per sé un bel regalo!