
COSIMO E LA LUNA
Era l’ora in cui il sole non sa più se restare o scappare dietro i palazzi. La luce colava lenta lungo le crepe dell’intonaco, un oro sfiancato, malato, che non brillava ma si arrampicava a fatica sulle persiane chiuse. Io ero sceso per respirare un po’. Non perché avessi voglia di uscire davvero: più che altro per sfuggire al rumore dentro casa, quello che non si spegne mai.
Stoviglie sbattute senza motivo. La televisione a volume da sagra, voci che si inseguivano come lattine vuote rotolate sull’asfalto. Mia madre che parlava da sola, come sempre, con la voce stanca di chi ha più ricordi che giorni davanti. E io che non sapevo più come fare a stare fermo dentro quelle pareti. Così mi rifugiavo fuori, nel vuoto della strada. Lì, almeno, c’era il silenzio. E in quel silenzio, a volte, trovavo un appiglio.
Mi misi spalle al muro, vicino al portone, a guardare la strada con l’aria di chi aspetta qualcuno. Non aspettavo nessuno, in realtà. Ma fingere di aspettare mi dava una scusa per restare. Era il mio trucco da anni: fingere. Fingere di osservare, fingere di avere un posto, fingere di avere una ragione. Nel frattempo, proteggevo la testa dal pensare.
E fu lì che comparve lui. Cosimo.
Spuntò da dietro l’angolo come un attore in ritardo che entra in scena senza aver ascoltato la battuta precedente. Passo rapido, sguardo alto. Ogni due metri si tirava su i pantaloni, un gesto nervoso e costante, come se temesse che gli scivolassero via. Ma non si muovevano di un millimetro: era un tic, o forse il suo modo per raddrizzare il mondo.
Si fermò davanti a me.
«Giovinò, ma perché mi guardate?»
La verità è che non lo stavo guardando. O forse sì. A volte lo sguardo si perde, e finisce dove non dovrebbe. Feci un mezzo sorriso educato, di quelli che servono a non farsi coinvolgere troppo: un segnale universale per dire “va bene, parliamo un attimo, ma non troppo”.
Lui però prese quel sorriso come un invito. E sorrise a sua volta. Un sorriso pieno, invadente, come se fossimo amici da sempre.
«Mi chiamo Cosimo. Ma le signore mi chiamano giovanotto. Chissà perché. Sarà che ho ancora lo sguardo vivo. Sarà che mi tengo bene. Oggi, tre sguardi. Uno dal balcone — con gli occhi mi ha detto: “Voi sì che siete un uomo”. Un’altra in macchina, finestrino abbassato. E una, davanti al panificio, ha fatto proprio così col mento, tipo: “Venite, provatemi”.»
Rideva da solo, come chi ride della propria ombra. Io annuii, solo per non romperlo. Lui aveva bisogno di un pubblico, e io ero lì. Non serviva altro.
«Mia moglie è gelosa» aggiunse, abbassando la voce, come se fosse una confidenza. «Eh, per forza. Lo sa che piaccio. A cinquantadue anni non sono tutti come me. Guardate gli altri: pancia, capelli persi, occhi spenti. Io invece… vivo. Dinamico. Si capisce subito quando uno è ancora appetibile.»
Gli occhi mi fissavano, cercavano conferma. Io annuii ancora. Non avevo voglia di discutere. Lui si accese.
«Però a casa si mangia bene, eh. Oggi gnocchi col sugo, quello vero. Non la passata. Pomodoro schiacciato a mano, basilico del balcone. Mia moglie ci tiene. È brava. E io lo so. Lo dico sempre.»
Mentre parlava, la luce intorno scivolava via, lenta ma inesorabile. Il cielo diventava un impasto di rosa e grigio. C’era una malinconia sospesa, come se tutto fosse in attesa.
Cosimo si piegò un po’ in avanti, abbassando il tono.
«Ma giovinò… voi ci credete alla storia della Luna?»
Io restai zitto. A metà tra la curiosità e la paura di entrare nel suo mondo. Lui prese il mio silenzio come un varco.
«No, dico… nel ’69 ci arrivano, ci camminano, ci tornano pure. E poi? Silenzio. Oggi i satelliti ti leggono la targa da Marte, e nessuno che torna sulla Luna. Eh. Strano, no? E la bandiera? Che sventola nel vuoto! Le ombre? Storte. Io li ho visti i video, giovinò. Li ho studiati. E certe cose non tornano. Mai.»
Sputava parole e saliva insieme. Gli occhi lucidi, febbrili, quasi belli. Il fiato sapeva di vino e basilico, e ogni sillaba mi colpiva addosso come se cercasse un varco nelle pieghe della pelle.
Cosimo non si fermava. Era come una fontana rotta: una volta che cominciava, non c’era più modo di tappare l’acqua.
«E poi… le scie chimiche. Ne vogliamo parlare? Ti dicono che sono le nuvole degli aerei, ma io le ho viste con i miei occhi. Quelli non sono aerei di linea, giovinò, sono macchine che spargono roba. Tu entri al centro commerciale per comprarti un paio di scarpe e ne esci che pensi quello che vogliono loro. Ti senti stanco, ti senti svuotato, ti senti come dire… raddrizzato.»
Mentre parlava, tirava ancora su i pantaloni, scatti nervosi, rapidi, come se dovesse riaggiustare qualcosa che non si aggiustava mai. Intorno, la strada era quasi vuota: un’anziana con la busta della spesa, un motorino rumoroso che scompariva all’angolo, il barbiere giovane che usciva dal negozio e si appoggiava allo stipite della porta, braccia incrociate. Aveva gli occhiali tondi, la faccia pulita. Ci guardava, non rideva, non commentava. Solo ascoltava.
Cosimo lo notò subito. Si piegò verso di me, mi sfiorò col gomito, abbassò la voce.
«È vostro parente?»
«No.»
«Ah. Perché sennò pensa che siamo amici stretti. Ma io con tutti parlo, eh. È un dono che ho: spiegarmi. Non tutti sanno ascoltare, però. Voi sì. Voi mi ascoltate. È raro, giovinò.»
Per un attimo i suoi occhi si fecero seri. E io ebbi la sensazione che avesse detto la cosa più vera di tutta la sera. Non rideva più, non cercava consenso. Solo quella frase: «Voi mi ascoltate».
Poi, come per non restare troppo a nudo, si rialzò con la voce.
«Io non sono come gli altri. Loro si lasciano prendere per il culo. Io vedo. Io capisco. È per questo che piaccio alle donne. Perché gli occhi me li mangiano, giovinò. Sanno che uno come me è vivo. Che pensa. Che non si fa fregare. E mia moglie lo sa. Per questo è gelosa. Ma io non le faccio mai troppo torto. Una scappatella sì, ma poi torno sempre. Perché la cena è pronta. E la casa è la casa.»
Il barbiere ci fissava, immobile. Cosimo gli rivolse di colpo la stessa domanda che aveva fatto a me:
«Giovinò, ma perché mi guardate?»
Il ragazzo arrossì, sorpreso come un bambino colto a rubare caramelle. Io lo guardai e mi scappò quasi da ridere. Ma Cosimo era serio. Si aggiustò i pantaloni e riprese il passo.
Lo osservai allontanarsi, deciso, sicuro, anche se la meta era chiaramente una scusa. Camminava come uno che non può permettersi di fermarsi: se si ferma, cade.
Io rimasi lì, fermo. Col tramonto che si sfilacciava addosso, come una pellicola troppo vecchia per reggere. E dentro, un groppo che non sapevo nominare.
Cosimo era un pazzo. Tutti lo dicevano. Ma non era il pazzo urlante, da manicomio. Era il pazzo lucidissimo, quello che inciampa sulla realtà e la guarda dal basso. Uno che ti fa ridere finché non ti accorgi che sta dicendo cose che ti entrano sottopelle. E lì, ti prende il gelo.
Perché a modo suo aveva ragione.
Sulle donne, forse no.
Sulla gelosia, nemmeno.
Ma sulla Luna, sulle ombre storte, sui fili invisibili che ci muovono… lì qualcosa mi aveva colpito.
E in quell’attimo l’ho seguito. Anche solo col pensiero. E ho avuto paura. Perché ho pensato: e se fosse vero? E se fossimo tutti addormentati, e l’unico sveglio fosse lui?
Cosimo non mi sembrò più un matto. Mi parve un superstite. L’ultimo uomo rimasto a dubitare del cielo.
E io, che mi credevo sano, per un istante ho desiderato seguirlo.
Avete messo Mi Piace6 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Il tuo testo mi ha colpito per come riesce a far vedere la scena: la luce, il rumore in casa, la strada vuota, Cosimo che si aggiusta i pantaloni. È tutto molto visivo e immediato, sembra di guardare una piccola scena teatrale.
Il punto più forte è proprio Cosimo, un personaggio “strano” ma vivo, che passa da buffo a inquietante.
Forse ti sei soffermato un po’ troppo nelle descrizioni iniziali, prima che Cosimo entri davvero in scena. Ma quando arriva lui, tutto prende ritmo e senso.
Può darsi che funzioni perché Cosimo esiste davvero: io mi sono limitato a descriverlo, evitando la caricatura.
Complimenti Lino ha una scritta matura. É un piacere leggere le tue storie.👏👏
Bravo Lino, sai saltare da uno stile all’altro come fanno i ragazzini sulle mattonelle numerate col gesso
“Mentre parlava, tirava ancora su i pantaloni, scatti nervosi, rapidi, come se dovesse riaggiustare qualcosa che non si aggiustava mai.”
Una frase che mostra l’ immagine e rende bene l’ idea del personaggio.
Suggerisce che non tutto ciò che dice può essere preso sul serio e allo stesso tempo, insinua il dubbio, che Cosimo, diverso e particolare anche nel nome, ne sappia – come si dice – una più del diavolo.
@cedrina Quel dettaglio nasce da un gesto reale: Cosimo esiste (nome cambiato) e tirava davvero su i pantaloni così, a scatti, come a rimettere in riga qualcosa dentro. Molte cose del racconto vengono direttamente dalla vita; la scrittura ha solo limato i bordi. Quella frase, più che invenzione, è una fotografia.
Forse la follia apre un varco sulla verità. “Pensi quello che vogliono loro.” Mi sa che Cosimo ha ragione. Dicono che i cellulari allontanino le persone fisicamente, forse, ma almeno virtualmente le avvicinano. Invece, prendere appuntamenti dal parrucchiere, dal medico, ecc., viaggiare in treni senza più scompartimenti e fare acquisti nei supermercati (perché non ci sono più i piccoli negozi) ci fa risparmiare tempo, ma ci allontana in tutti i sensi: e se fosse anche un disegno per controllarci e separarci? Grazie per la lettura, Lino🙂
@conchita59 La frase di Cosimo (“Pensi quello che vogliono loro”) l’ha detta davvero: non penso a un complotto unico, ma a tante “comodità” che ci tolgono contatto e ci rendono più prevedibili. Connessi, sì, ma anche più separati.
“Ma fingere di aspettare mi dava una scusa per restare.”
Leggere questa frase è stato lo sprone a continuare a farlo…
A volte bastano due righe per innamorasi di un’intera storia (almeno a me succede spesso).
Carinissimo questo racconto, scritto bene, come al tuo solito, Lino. Presenti Cosimo come uno dei tanti squilibrati che imperversano sui social con teorie che vanno dal poco discutibile all’assurdo, ma, poi apri uno spiraglio sulla possibilità che lui ci veda bene e che si sia noi i miopi. Credo che, almeno una volta, lo abbiamo pensato tutti: “E se avessero ragione?” Poi, però, ti rendi conto che l’elenco delle cose di cui hanno una visione “alternativa” è troppo lungo per essere credibile e che su una terra piatta, con le scie chimiche, piena di gente che nega il cambiamento climatico, che pensa che con vaccini ci microcippano, che vuole un revisionismo storico che rivaluti il nazismo… non vorresti proprio viverci.