Da qualche parte si deve pur cominciare   

Quando Mary entrò al Breeze de Mer, stavo mangiando datteri accompagnati da the alla menta e fumando una sigaretta all’hashish. Per un attimo pensai si trattasse di un miraggio, come quelli che ingannano gli sprovveduti che si avventurano nel deserto senza timore.

Fu solo quando mi rivolse la parola che capii che era reale.

Era stato il comandante del distaccamento di polizia a spingerla tra le mie braccia. La dolce Mary era alla ricerca di uno dei tanti fantasmi sopravvissuti alla battaglia di Taghit. Cercava suo fratello, Robert Russell: un figlio devoto, campione di croquet, misteriosamente scomparso cinque anni prima.

Tentai di disilluderla, ma lei mi porse una lettera scritta da un commilitone del fratello, indirizzata alla famiglia a Londra. In quella lettera, l’uomo raccontava le gesta di Robert e lo ringraziava per avergli salvato la vita.

Osservai la carta, le parole scritte, la calligrafia, l’inchiostro, l’affrancatura… Poi tirai fuori dalla mia borsa altre cinque lettere identiche: stessa calligrafia, stessa carta, stesso contenuto, ma firmate con nomi diversi.

Le spiegai il tranello che molti figli della fame usano per truffare le famiglie abbienti. Le dissi di non illudersi, che gente così io la condannavo sul posto. Ma lei non volle credermi. Le lacrime le rigavano il volto mentre mi colpiva con schiaffi e spintoni, gridandomi che ero un bugiardo.

La scenetta stava attirando troppa attenzione, così la strattonai via, portandola lontano da occhi e orecchie indiscrete, nei locali della bisca, ormai deserti a quell’ora.

Le mollai un ceffone per calmarla e le offrii un pastis fresco per farle riprendere fiato. Mi scusai, e quando si fu ripresa, presi una decisione.

Decisi di giocare al suo gioco. Invece di spegnere la sua speranza con il solito discorso, quello che avevo imparato a memoria su indicazione del mio superiore e rimandarla a casa salva ma col cuore spezzato, preferii alimentare in lei la possibilità di ritrovare il caro fratello.

Le dissi che, forse, quella lettera era autentica.

La riaccompagnai dove soggiornava e, prima di congedarmi, le strappai un invito a cena nel ristorante dell’hotel. Quella sera vidi un’altra donna: capace di intrattenere un uomo come me, facendomi sentire al centro del mondo, una sensazione che non provavo da tempo.

Nella ricerca del fratello vi era qualcosa di oscuro che ancora non si era manifestato, ma che presto avrebbe travolto entrambi.

Il vino aveva fatto il suo effetto, e la notte la passammo insieme. La sua carne era dolce, il suo cuore batteva all’impazzata mentre la stringevo a me. Poi le sue labbra, il suo sguardo da bambola, quei capelli di seta che mi avvolgevano il corpo…

Lasciai che fosse lei a condurre il gioco. In fondo, c’erano dei vantaggi nel lasciarsi abbindolare da una donna simile. E poi, faceva troppo caldo per ribellarsi.

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Discussioni

  1. È un bel brano, l’intrigante inizio di una storia. Forse un po’ scarno di contestualizzazione; l’unico dettaglio rivelato (la battaglia di Taghit) ci dice che siamo nei primi del novecento e presumibilmente in Algeria, data l’apertura dove chi racconta sta mangiando dei datteri, ma questo è sufficiente per connotare il personaggio di Mary: in quell’epoca non era usuale che una donna viaggiasse sola, e avesse il piglio di gestire autonomamente una ricerca come quella enunciata. Ho letto con piacere, grazie

  2. “E poi, faceva troppo caldo per ribellarsi.”
    Degna chiusa di un buon racconto. Prima ti ho detto ‘cinematografico’. Ora, mi viene da pensare anche alle strisce di un fumetto in bianco e nero. Bello.

  3. “Le mollai un ceffone per calmarla e le offrii un pastis fresco per farle riprendere fiato”
    Direi che è molto cinematografico: come fosse una scena tratta da un film di gangster dove spesso le donne belle erano prese a ceffoni