Denti Stretti

Inverno 1967

La chiesa odora di muffa rancida, di cera spenta, di legno marcio gonfio d’acqua. I muri sono umidi, screpolati, chiazzati di macchie nere, ferite aperte di pietra che nessuno ha mai curato.

Lei siede in fondo, piegata su sé stessa, con un pizzo scuro abbassato che le copre metà del viso e i guanti consunti che non riescono a nascondere le dita ridotte ad aghi secchi.

La chiamano la Santa Stretta.

Nessuno conosce il suo nome di battesimo. Nessuno lo ha mai chiesto. Ma tutti sanno che prega. Sempre. Da vent’anni appare e scompare così: si inginocchia anche quando non c’è messa, anche quando la chiesa è buia e scricchiola come se il tetto stesse per cedere.

E che non ha mai partorito. Per grazia, o per condanna.

Ma dentro quelle ossa curve, un tempo, c’era sangue, c’era calore. C’era stata una donna intera.

L’aveva sposato nel ’41, Giovanni Baldo, bracciante vedovo, un uomo piegato dalla terra e dalla fame. Portava negli occhi il lutto di chi ha visto morire troppo. Cinque figli sepolti, uno dopo l’altro.

Tisi, dicevano i dottori con la voce rassegnata.

Maledizione, sussurravano le donne dietro le tende chiuse.

E la stessa tisi, lenta come un tarlo, gli aveva rosicchiato via anche la prima moglie.

Consumata piano, giorno dopo giorno, fino a diventare un mucchietto di resti che tossiva sangue in una scodella. Giovanni l’aveva guardata spegnersi senza poter fare altro che stringerle le mani sudate, impotente, mentre il respiro si rompeva in rantoli feriti. L’aveva seppellita in un giorno di pioggia, con le scarpe che sprofondavano nel fango e la pala che non riusciva più a sollevare la terra.

Da allora qualcosa in lui si era piegato e non si era più raddrizzato.

Solo Pietro, il primogenito, era rimasto vivo. E proprio per questo Giovanni non ci credette mai davvero.

«Se Dio li ha presi tutti tranne lui, qualcosa non torna. Forse non è mio. Forse è l’unico sano perché non è mio.»

Non volle più figli.

Non volle più giacere alla luce di Dio.

«Dal davanti viene la morte,» diceva. «Dal dietro, solo carne. E basta.»

Così, ogni notte, la prendeva sul letto, attento a non romperla ma deciso a piegarla.

Col rosario che le batteva sulla schiena come una frusta in preghiera, affondava dentro di lei duro, muto. Non un chiodo, ma un sigillo che la chiudeva viva nella sua bara.

Lei non diceva nulla. Stringeva i denti. E pregava.

Pregava che la guerra lo portasse via. Pregava che almeno il dolore trovasse la strada per andarsene.

Ma Dio taceva. E la radio gracchiava soltanto bollettini, voci lontane, parole che non scaldavano.

Fuori, i rastrellamenti salivano dalle valli lenti e contagiosi.

Le madri chiudevano a doppia mandata le porte e stringevano i figli al petto.

I ragazzi imparavano a tacere presto.

Il gelo entrava dalle fessure e restava inchiodato negli angoli delle stanze, ostinato, immobile.

Pietro cresceva in quella casa di pietra e silenzio.

Aveva diciott’anni. Parlava poco. Guardava troppo.

Teneva le mani in tasca anche d’estate, come se avesse paura di usarle male.

Ricordava i nomi dei fratelli morti. Ricordava i rumori delle notti.

A scuola ci era andato poco. Dicevano che si distraeva, che non teneva il passo, che fissava i vetri come se ci vedesse dentro altro.

Guardava quella donna, una statua rotta: con rispetto e muta soggezione.

Temeva che bastasse sfiorarla per farla crollare del tutto.

Non la chiamava mai per nome. Non osava.

Ma le lasciava fiori secchi sul tavolo. Sempre dispari, perché “i dispari non portano via la vita”, diceva tra sé.

Una volta provò a regalarle una corda annodata. «Per la preghiera», mormorò.

Lei non rispose. Poi il rosario sparì. E lui non chiese più nulla.

Un giorno, tornando dal lavatoio, Pietro le domandò piano, come se le parole avessero il peso delle pietre:

«Se Dio ha preso i miei fratelli… è colpa mia che sono rimasto?»

Poi si morse la lingua, come chi ha detto un pensiero che non dovrebbe esistere.

Lei gli accarezzò il volto.

Un gesto minuscolo, esitante. Una carezza o un congedo — difficile dirlo.

Le sue dita erano fredde come marmo, tremanti come quelle di chi benedice o condanna.

Successe nel pieno di una nevicata.

Giovanni era in montagna a cercare legna.

La stufa tossiva fumo e gelo.

Il vento graffiava negli interstizi delle finestre, un ululato che pareva non finire mai.

Pietro le porse una coperta. Aveva le mani rosse, spaccate, sacrificate al freddo e alla fame.

Lo sguardo acceso, febbrile.

Lei le prese tra le sue. Le sfregò piano, come se volesse restituirgli il sangue.

Tacque. Poi si sedette sul bordo del letto.

Pietro le toccò il seno.

Lei chiuse gli occhi.

Non fu un gesto improvviso.

Né impazienza. Né forza.

Fu un silenzio condiviso. Un patto mai pronunciato.

Fu lei a guidarlo.

Gli prese il volto tra le mani.

Gli posò la fronte sulla sua.

E gli insegnò a toccare senza fare male.

Lui tremava, ma non di paura.

Non fu dolce. Non fu brutale.

Fu umano.

Un sorso dopo troppa sete.

Un braciere acceso nella neve.

Un incontro senza carezze, ma senza ferite.

Un bisogno che non aveva nome.

Come la fame.

Come una resurrezione promessa e mancata.

Quando si rivestirono, lui rimase un attimo fermo.

La guardò, con gli occhi larghi, come chi ha attraversato un confine e non sa se potrà tornare.

Poi, appena lei si voltò, sorrise.

Un sorriso esile, trattenuto, ma vero.

Un sorriso da bambino che ha ricevuto qualcosa che non sapeva di desiderare.

Lei uscì. Andò in chiesa.

Si mise in ginocchio davanti al crocifisso, scheggiato dalla guerra.

Col sangue di Pietro ancora sulle gambe, pregò.

Non per il perdono. Per la fine.

Con gli occhi secchi di chi ha già pianto tutto, fissò il crocifisso come si guarda un muro che non risponde.

La neve cadeva lenta, pesante.

Un silenzio bianco seppelliva ogni cosa.

Il campanile suonò l’Angelus.

Nessuno rispose.

Le finestre serrate. I cani tacevano: anche agli animali la guerra aveva insegnato il silenzio.

Quando Giovanni tornò, trovò la casa vuota.

Sul muro della camera, scritta col carbone, una frase:

DAL DIETRO NON NASCE LA VITA MA NEANCHE IL PERDONO

Fu l’unica cosa che lasciò.

Più di un addio. Meno di un’accusa.

Quella fu l’ultima volta che qualcuno la vide in paese.

Da allora, solo pane secco sul gradino della chiesa. Come un’offerta.

Qualcuno diceva fosse Pietro a portarlo.

Altri giuravano di aver visto solo l’ombra di una donna inginocchiata, piegata più del legno dei banchi.

Ora è così, da tanti anni.

Non alza il canto. Non si confessa. Non prende l’ostia. Non invoca.

Solo i denti serrati, la bocca dura di silenzio.

I bambini scappano appena la vedono.

Le donne si segnano, gli uomini abbassano lo sguardo.

Ma nessuno osa allontanarla.

Lei prega. Senza voce, senza sosta.

Un corpo piegato che sembra consumarsi da sé, come una candela al rovescio.

Ogni vertebra un grano di rosario spezzato, ogni sospiro una spina conficcata.

Gli occhi murati da un’ombra nera, eterea.

Sempre allo stesso banco.

Immobile, impenetrabile.

Più reliquia che donna.

Qualcuno sussurra che porti dentro la guerra. O la fame. O un segreto mai detto.

Ma nessuno ha mai avuto il coraggio di domandarle la verità.

E quando le campane rintoccano, per un istante sembra che sia lei a suonarle.

Non con le mani.

Con i denti.

La chiamano la Santa Stretta.

Avete messo Mi Piace6 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Arrivo solamente oggi a questo testo, a questi commenti accesi, appassionati e appassionanti, liberatori. Qui, tutto mi è parso eccessivo e, forse, la lezione è che le parole hanno peso, eccome che pesano. La cosa importante è che ne abbiamo coscienza quando le usiamo.
    Lo scrittore scrive ciò che sente il bisogno di mettere su carta, che sia esercizio stilistico oppure un vissuto o un narrato e il lettore legge e, a modo suo sente, elabora e butta fuori.
    Una comunità è viva quando interagisce e, credo, suscitare tanto animo è già di per sé un grande successo.

    1. Sì: qui l’eccesso è voluto; quando la materia brucia, le parole devono pesare. Scrivo per bisogno, il lettore rilancia: è così che un testo esce dalla pagina e diventa spazio condiviso. Se questo pezzo ha acceso discussione, allora la comunità è viva. E la responsabilità di ognuno di noi, quando apre bocca o mette nero su bianco, è ricordarsi che ogni parola lascia un segno. Grazie per averlo rimesso al centro.

  2. Un testo costruito sugli eccessi: troppo dolore, troppa sopportazione, troppa santità, troppa profanazione. Troppo improbabile anche l’unione carnale con figliastro. E le frasi poi: perché cosi brevi, coriacee, enfatiche? “Un mucchietto di resti che sputava sangue in una bacinella”; “da dietro solo carne”: un po’ di senso della misura, per favore! Ma lo spettacolo, alla fine, riesce e si può addirittura applaudire, e sbizzarrirsi in un definitivo eccesso di lodi.

    1. Ah, finalmente qualcuno che ha colto il punto: l’eccesso era l’ingrediente segreto, come il peperoncino nella cioccolata o l’ananas sulla pizza, assolutamente fuori luogo, eppure indimenticabile.
      Sulla misura ha ragione: l’ho persa verso la terza frase corta e coriacea, probabilmente mentre qualcuno sputava sangue in una bacinella (capita, nelle migliori cucine).
      Ma se lo spettacolo, nonostante tutto, merita un applauso… allora viva l’eccesso: che almeno si diverte.

    2. E chi la stabilisce la misura? Tu? Se non ti piace un racconto puoi passare oltre, ma dare giudizi sulla forma e sulla sostanza e indicazioni sul metro di misura è sbagliato, maleducato e inappropriato.

      1. Siamo qui proprio perché gli altri possano esprimere giudizi su quello che scriviamo. Altrimenti a che serve stare qui? Inoltre, non permetterti mai più di darmi della maleducata.

        1. Giudizio? Critica? A me è sembrato più un esercizio di vanità: non per capire un testo, ma per mostrare quanto si è brillanti nello scrivere il commento. Per fortuna, i testi sopravvivono anche a chi li usa solo come specchio per ammirarsi.

        2. Di tutto abbiamo bisogno tranne di qualcuno che ci dica cosa e come dobbiamo scrivere. Tienilo a mente!

        3. @Beppe , perché parli al plurale?”Abbiamo”chi? Non sapevo che qui esistesse un soggetto collettivo portatore di un’ortodossia estetica o espressiva. Nemmeno la redazione, per quanto ho visto finora, si colloca in una posizione simile. Penso che non dovresti farlo nemmeno tu. E smettila di parlarmi come a una ragazzina e di darmi lezioni.

  3. Ma io dove sono stata fino a adesso? Mi devi perdonare, per la prima volta oggi vengo sulla tua pagina, leggo due dei tuoi racconti, e non me ne faccio una ragione di non essere riuscita a leggerti prima. Scrivi benissimo, di una qualità superiore. Nulla è troppo, nulla è troppo poco. Tutto è calibrato come il colpo ben assestato di un arciere che sa esattamente come andare a segno.

  4. Poche volte o forse mai, credo di aver letto dei testi come questo o come tanti altri tuoi racconti, così duri, sentiti e intensi da sembrare vissuti e veri. Storie che non solo catturano l’attenzione del lettore, ma arrivano in profonditâ e possono colpire o lacerare la nostra fragile corazza, lo scudo di cartapesta che in alcuni é piú resistente, in altri meno. “Denti stretti” non suscita alcun sorriso, ma mostra immagini forti, suggestive, in bianco e nero. Ritratti di un autore capace ogni volta, di osare e di sorprendere. Nessun dito puntato contro, neanche stavolta, solo un inchino virtuale al talento di uno scrittore.

    1. Le tue parole sono più forti del racconto stesso. Se davvero Denti Stretti arriva così in profondità, allora il dolore che ho provato a scrivere non è stato inutile. Non cerco mai (o forse non ci riesco) di addolcire certi ritratti: preferisco mostrarli nudi, in bianco e nero, proprio come li hai descritti tu. Ricevere un “inchino virtuale” così sincero è un dono raro, un commento che vale più di mille riconoscimenti. Grazie per aver saputo vedere e restituire con tanta intensità ciò che cerco di mettere nei miei testi.

  5. Il racconto cattura l’attenzione fin dalle prime righe. Ho letto con la segreta speranza di arrivare ad una svolta, una luce per questi personaggi così segnati. Invece la discesa è proseguita fino alla fine. Una storia triste, una scrittura impeccabile.

  6. È davvero un bel pezzo. Intenso e avvolto da una coltre un po’ cupa che contraddistingue i tuoi brani. Penso che suoni un po’ come una sinossi di una storia per vorrebbe essere raccontata (e letta) per intero, intendo dire: con la profondità che questi personaggi meritano. Bravo, Lino, complimenti.

    1. Apprezzo molto la tua osservazione. Mi fa piacere che tu abbia colto in questi personaggi la possibilità di maggiore profondità. Ti confido che, per rimanere nei limiti, spesso condivido qui adattamenti di racconti ben più lunghi.

  7. Hai una voce letteraria profondissima Lino. Devo confessarti (ed è una cosa bella quella che sto per dirti) che per un attimo, all’inizio, ho creduto tu fossi una delle nostre migliori autrici che scriveva in incognito, con un nome ed una fotografia artata. Ma evidentemente mi sbaglio. I miei complimenti come sempre.

    1. Dire che ho una voce letteraria profondissima credo sia uno dei complimenti che ogni autore vorrebbe sentirsi fare (autore? Posso considerarmi tale? Ma sì, crepi l’avarizia). Però ti confesso la verità: la foto è di 4 anni fa… forse anche cinque! Almeno quella non invecchia. Io, un po’, sì.