Dieci anni dopo un addio 

Eri tu, ferma al semaforo a pochi passi da me. Non mi sarei potuto sbagliare, oh no.

Di fossette così, beh, non ne avevo mai più viste da quando te n’eri andata, dieci anni prima. Che giorno, quello. E lo so che non si inizia una frase con un “che”, o tantomeno con una “e”, ma ci sono cose delle quali è bene farsi una ragione, a un certo punto.

Un po’ come le partenze, gli addii. Come le sei del pomeriggio alla stazione, tra il lampo e il tuono, in un momento lungo una vita.

L’istante in cui ti eri voltata verso di me, ricordi? Poco prima di andare via. Quel giorno di dieci anni fa, sì. Avevi lasciato scivolare le tue valige a terra, aprendo i pugni. L’ipotesi di un finale migliore, magari differente. Il treno aveva sbuffato, perché questo fanno, i treni. Un po’ come le persone, in fondo.

Rimasi immobile a guardare la tua fossetta, mentre il semaforo continuava ad essere rosso.

Girati, andiamo. Girati.

Avrei potuto chiamarti, ma…

Il treno aveva sbuffato, sì. In un flash avevo rivisto tutto: il nostro primo incontro, il tuo numero di telefono rubato, scritto al volo un pomeriggio su pezzo di carta malandato e subito diventato oro. Qualcosa da non perdere.

È così che nascono, certi amori? Senza una parola, senza una ragione. Nascono e basta. L’avevo imparato, sì.

Ricordi le sere di quell’estate? Cinema, autobus, la città, il caldo, il gelato alla fragola, le notti profumate. I tuoi capelli. Nietzsche e Kafka e Cesare Pavese sparsi sul letto, ed io ad interrogarti. Italia -Germania alla tv, i gol di Balotelli. La voglia di partire, di andare a finire chissà dove, chissà come, ma insieme.

Eri proprio tu, sì. Tra di noi, al rosso del semaforo, aspettando il verde, c’erano almeno quattro persone. Non eri sola, però. C’era un altro al tuo fianco. Ti teneva il braccio intorno alla schiena. Tu ridevi.

È strano tornare in un posto che non si è mai lasciato, non credete?

<> avevi detto, mentre la pioggia aveva cominciato a scendere più in fretta.

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Non starò qui a raccontare perché non sia salito anch’io su quel treno. Ci sono momenti nel corso del tempo in cui gli eventi si inseguono e basta. Per dirla tutta, non avevo mai creduto che ci si potesse far male così, per qualcun altro. Lo avrei capito in seguito. Dieci anni sono tanti, però. A un certo punto, per quanto profonde, anche le cicatrici tendono a trasformarsi in qualcosa cui -semplicemente- ci si abitua. Ero sicuro che fosse andata così, e invece rivederti a quel semaforo…

Qualche giorno prima che tu partissi, in giro tra le vetrine dei negozi del centro.

<<È bello quel vestito a fiori>> avevi detto.

Eccoti. Tu, proprio tu, in quelle sei parole. Il riassunto perfetto di come alla fine avevi stravolto il mondo. Entrambi sapevamo che forse non ci saremmo mai più rivisti, e dentro di me tutto era caos, crepuscolo. Non ci eravamo promessi che ci avremmo provato in ogni caso, a distanza, da lontano. Nessuno spiraglio cui aggrapparci. E mentre io mi sentivo perso, tu guardavi il vestito in vetrina. Sentivo la malinconia, però. Attraverso ogni tua parola. Anche se cercavi di essere forte, di essere grande. Di essere già oltre noi due.

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Così, eravamo entrati. L’avevi provato. Mi avevi chiesto di guardarti.

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Poi baciarsi nel camerino, con le tende chiuse. Fare l’amore un’ultima volta, in silenzio, di corsa.

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L’avevo capito quella sera, tornando a casa dopo averti riaccompagnata. L’amore, se esisteva, eri tu. Nient’altro. Né prima, né dopo. Avevo avuto un flash, allora: ti avrei cercata ovunque, in seguito.

Avevo tentato di scacciare quel pensiero, ma senza riuscire a farlo scomparire mai del tutto.

Avevo avuto ragione. Negli anni successivi, in qualche modo, ero tornato a te. Allora era vero, avevo pensato. La storia della mela, di Platone e tutto il resto. Le due metà che sono le uniche l’una per l’altra, come Marina Massironi spiegava ad Aldo, Giovanni e Giacomo in “Tre uomini e una gamba”. Era vero, cazzo. Lo sapevo. Adesso lo sapevo.

Arancione, quasi verde. Ancora niente. Non mi mossi. Ridevi insieme a lui. Quella era stata la mia paura più grande, e me ne ero reso conto tempo dopo. Il fatto che avrei potuto vederti ridere con qualcun altro, prima o poi. Era da egoisti pensarlo? Non conoscevo la risposta. A breve sarebbe scattato il verde.

<<È stato bello, con te>> mi avevi detto, quel tardo pomeriggio alla stazione. Due, tre minuti e poi saresti salita sul treno.

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Mi avevi sempre preso in giro per quella parola. Dicevi che nessuno la usava. Che era una cosa da “vecchi”. E allora di tanto in tanto te la ripetevo, e tu ridevi.

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Non me l’avevi mai detto prima. Doveva essere un po’ come scambiarsi un “ti amo”, avevo pensato.

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Avevo annuito. Il nodo alla gola era divenuto un macigno. Eri salita sul treno. I vagoni erano diventati sempre più piccoli, nel tramonto piovoso di quel sabato. D’un tratto, mi ero sentito vuoto. Avevo incominciato a camminare nella direzione opposta, incurante della pioggia che mi bagnava, e quello era stato il momento in cui avevo davvero realizzato che te n’eri andata.

L’indomani non avrebbe avuto un nome, avevo pensato. Senza di te, sarebbe stato soltanto un giorno uguale a tutti gli altri.

Scattò il verde. Rimasi immobile. Lasciai che gli altri mi superassero. Quanto avrei voluto chiamarti! Quanto avrei voluto fermarti, chiederti come fosse andata la  tua vita, da allora. Sapere se anche a te certe notti capitasse di ritornare con il pensiero a quell’estate di dieci anni prima… avrei voluto, sì. Poi ti guardai appoggiare la testa sul collo di lui, proprio di fronte a me. Lui ti baciò. 

Un lampo, un tuono, la pioggia, Come quella volta alla stazione.

Fu un istante solo, una frazione di secondo. Ti voltasti all’indietro, verso di me, mentre lui aveva preso la tua mano nella sua.

Incontrai la tua fossetta, ancora una volta. Poi, come quel treno sul quale eri salita, ti vidi diventare sempre più piccola, sempre più lontana.

<> sussurrai, parlando da solo, alla pioggia.

Eppure, un attimo prima che ti girassi di nuovo, mi sembrò di vederti sorridere. 

Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Amore

Discussioni

  1. L’ho visto per caso aprendo il profilo di Bell de Lamp. Ne sono rimasta molto colpita, è un racconto d’amore scritto come si devono scrivere i racconti d’amore. Lo farei anche io se ne fossi capace. Perché solo l’amore perso è quello vero: non lo so perché ma so che è così. Forse perché rimane intatto, ma chissà. Come un bellissimo fossile vivente? Come l’impronta di un fiore preistorico ancora in fiore su un sasso alpino? Come l’impronta intangibile di un piede sul fondo del mare? Come un raggio di luce che incide la retina e lascia una cicatrice d’oro? Quanti altri “come” potrei scrivere.
    E mi ha fatto tornare in mente “Signal fichado” di Vinicus de Moraes e Toquinho.

    1. Ciao… scusami tanto, ho letto il tuo meravigliso commento soltanto ora! Non ero mai più entrato sul sito… Sono davvero contento per le tue bellissime parole. Ho riletto il racconto e devo dargli una sistemata… era proprio stato scritto di getto! Però sono contentissimo che ti sia piaciuto… Grazie di cuore:)
      L.

  2. Ciao Luca. Ho letto con molto piacere il tuo racconto, la descrizione di questo momento eterno è molto delicata. Hai pizzicato la mia, praticamente impalpabile, vena malinconico romantica

    1. Ciao! Grazie mille per la tua lettura e per il tuo commento! Sono contento che i riferimenti ti piacciano e che tu l’abbia trovato interessante pur non essendo il tuo genere 🙂 La partita era la semifinale degli Europei del 2012, Italia Germania 🙂