Fame

Il notaio Bellafonte non le aveva dato tregua per tutto il giorno.

Da quando l’aveva accolta in casa, era stato capace di farla passare, nel giro di pochi giorni e con poche frasi, da segretaria personale a donna di fatica.

Era passato dal gentile: “Per cortesia Delia mi metta in bella copia la lettera per il Cavaliere Arnò” al perentorio “Per stasera la camicia bianca deve essere stirata e il colletto inamidato”.

Delia non si capacitava di come e quando fosse avvenuta quella trasformazione: nelle parole del notaio Bellafonte e nella sua posizione all’interno della casa di via delle ginestre 18 a Tuglie.

La guerra le stava rubando tante cose, ora anche la dignità per mano di un uomo che le si era proposto come benefattore. Nella sagrestia della chiesa madre, il buon don Nicola l’aveva raccomandata al notaio Bellafonte. E le era parsa una buona occasione per sfuggire alla fame e alla miseria.

Tutto era partito da lontano. In un momento in cui, nel torpore di un piccolo paese devastato dall’assenza di braccia da lavoro e da una guerra che, se non fosse proprio per quegli uomini che mancavano e per la inevitabile fame, sembrava lontana “La bestiolina non sa leggere” seguita da una risata non le era sembrata proprio una buona cosa.

La signorina Rita, la “zitellona” come la chiamavano in paese e per la quale faceva i servizi in casa, se n’era uscita così, con quella definizione terribile.

Quella domenica, a messa prima, aveva aspettato l’ite missa est e si era precipitata in sacrestia e aveva chiesto a don Nicola di insegnarle a leggere e scrivere. In cambio avrebbe spazzato la grande chiesta barocca, spolverato gli altari e qualsiasi altro fosse stato necessario a ripagarlo.

Don Nicola aveva accettato. E Delia non stette mai a riflettere se fosse per opportunismo o carità cristiana.

Però presto la sua voce stentorea si schiarì scivolando in una lettura sicura e quelle vocali e consonanti volanti divennero una calligrafia ferma, limpida, quasi elegante.

Un dono di Dio sentenziò don Nicola. Merito di esercizi al chiaro di luna o alle luci dell’alba sui ritagli di carta paglia e di una volontà di ferrò pensò Delia.

Il passo successivo sarebbe stato uscire dalla casa della zitellona, di quella donnicciola fintamente buona ma autenticamente triste e cattiva che, per un quinto di olio, l’aveva fatta sgobbare per mesi e mesi, in una casa buia e triste ma con una dispensa piena di ogni ben di Dio di cui lei aveva solo sentito l’odore.

La fame invece era nelle scorze dei lupini che, di nascosto dalla severa quanto orgogliosa madre, aveva raccolto sotto il carretto e mangiato come fossero morbidi profumati dolci.

Ed era nella gavetta di alluminio dei militari sotto l’oratorio, in quella brodaglia verdognola dai galleggianti maccheroni che presto sparivano, persi in una voracità che si consumava nel tragitto fino a casa. E pazienza se la madre, all’evidente assenza di pasta aveva sentenziato: “ti fregano tutti, pure i militari che ti hanno dato solo acqua sporca”.

Che passasse pure per stupida. In fondo a chi poteva interessare quanto la lettura, in quegli ultimi due anni, l’avesse cambiata. Dei mondi sconosciuti che le si erano rivelati. Di quella fame di sapere che non si era fermata al messalino e al vangelo del parroco, ma si era nutrita anche dei volantini che Vittorio e i suoi amici stampavano di nascosto nei locali sotto il frantoio. Ci era capitata sempre per fame;  lì distribuivano tozzi di pane raffermo con qualche goccia di un qualcosa che assomigliava all’olio, recuperata dalla pulitura dei fiscoli e quando si era infilata nella stanza sbagliata, era rimasta colpita da tutti quei fogli stampati.

“Che ci fai qui?” Ora mi ammazza aveva pensato Delia.

“Leggo”. Doveva essere una risposta proprio strampalata, perché Vittorio si mise a ridere e la lasciò leggere anche tanti altri giorni a venire.

Ma in casa del notaio Bellafonte certamente non avrebbe sofferto la fame.  “Se sa anche scrivere, me la prendo in casa”.

In un attimo si era immaginata al sicuro dalle botte della madre, lontano dalle cattiverie della zitellona e soprattutto in una casa dove la fame non aveva odore.

Perché non c’era.

Si sarebbe saziata. Anche per le letture che i libri del notaio le avrebbero permesso.

E sarebbe stata felice.

Una delle cose che amava fare da quando leggeva, era annotare le parole strane, quelle con un suono particolare e il significato oscuro. Prima o poi ne avrebbe colto il senso. Ecco, ora quella bella parola, dal suono quasi sussurrato, effimero aveva proprio un senso.

Perché quella sua felicità era effimera.

I primi giorni erano stati piacevoli, compitamente scriveva in bella gli appunti che le lasciava il notaio sullo scrittoio della stanzetta vicino la cucina; le facevano compagnia il silenzio e il profumo dello spignattamento allegro della cuoca. Oh sì, allegro e carico di promesse. Più tardi, una scodella calda l’avrebbe saziata.

E c’era le frasi gentili, i sorrisi. Pochi, poi rari. Alla fine scomparsi. Rimpiazzati da frasi secche e dure. Ordini.

Era ancora “la bestiolina”?

Soddisfare la fame viscerale, la metteva al riparo da quella di libertà e la voglia di essere consapevolmente viva?

Assecondare i desiderata del notaio l’avrebbe salvata? Bruciare quel briciolo di orgoglio annacquandolo nel silenzio di qualche lacrima le avrebbe dato pace o l’avrebbe condannata a quella fame eterna?

Si alzò dallo scrittoio, dimenticò il caldo della vicina cucina e aprì il pesante portone, appena in tempo per vedere gli americani che arrivavano in paese.

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Discussioni

  1. “Si alzò dallo scrittoio, dimenticò il caldo della vicina cucina e aprì il pesante portone, appena in tempo per vedere gli americani che arrivavano in paese”
    Applauso

  2. Ciao Loredana, il tuo racconto mi è piaciuto moltissimo. Descrivi una situazione molto amara, e molto reale anche ai giorni nostri, con una delicatezza incredibile. Complimenti 😀