Fetore Mortale

Serie: Sei proiettili d'argento


“Tra poco torno, tu non ti muovere troppo che non è il caso” sussurrò Tiberio mentre appoggiava alla parete il corpo dell’amico il cui respiro si faceva sempre più flebile via via che il tempo passava.

Si accostò alla porta con la pistola nella mano destra, il peso dell’arma si faceva sentire tutto, non né fabbricavano più di così buone da quando il mondo era diventato un posto popolato da morti quasi più pericolosi dei vivi. Era sempre più complicato mantenere la sicurezza sul posto di lavoro e la cosa peggiore, almeno in fabbrica, accadeva quando si verificava un incidente mortale; infatti a quel punto era molto semplice veder degenerare la situazione poiché il morto poteva risvegliarsi causando disordini e lotte che richiedevano l’intervento armato dell’esercito.

Con l’orecchio teso in attesa di sentire anche il minimo rumore sospetto Tiberio rimase lì di fronte all’uscio, il respiro si era fatto ritmico ma rilassato, proprio quello che cercava di tenere quando aveva bisogno di rimanere concentrato. Aveva imparato a controllarlo sin dai tempi della scuola ufficiali quando il suo addestratore li aveva messi in condizione di apprezzare la differenza tra un respiro affannoso e incontrollato e uno ben gestito.

Fece passare circa cinque minuti prima di trovare il coraggio di oltrepassare quella maledetta porta socchiusa, nella sua testa mille campanelli d’allarme suonarono come le sirene che avvisano di un bombardamento che incombe. L’odore pungente nell’aria si tramutò in un fetore difficile da ignorare. L’ex soldato cercò di ingannare la sua testa ma era complesso far finta di non riconoscere il fetore di cadavere che appestava quel rifugio di montagna: si trattava di almeno un morto ma non si potevano escludere sorprese di ogni tipo. La luce che illuminava l’ambiente era abbastanza forte da permettere di scrutarlo con attenzione: al centro della stanza si trovava un tavolo ricavato da un tronco d’albero tagliato in due, intorno sei sedie grezze troneggiavano, una giaceva a terra mezza sfondata, una gamba finita a mezzo metro di distanza. Le finestre erano state accuratamente sbarrate con un circa tre assi ciascuna e chiodi molto grandi che parevano difficili da staccare. Qualcuno si era impegnato più del dovuto per rendere sicuro quello spazio in mezzo alle montagne, forse era stato l’avamposto di un gruppo di banditi che avevano fatto una brutta fine, la cosa non l’avrebbe stupito; ciò che invece stonava molto era l’assenza di segni di lotta evidenti, come se all’improvviso tutti se ne fossero andati per la loro strada, abbandonando il luogo come l’avevano occupato. In fondo alla stanza rettangolare si nascondeva nella penombra una porta scura, al centro quello che pareva un colpo d’ascia di medie dimensioni, l’arma era finita nel nulla ma l’ingresso all’ambiente attiguo; sulla destra un paio di mensole erano colme di barattoli di vetro dal contenuto scuro.

“Tib…” un urlo soffocato raggiunse le orecchie tese dell’uomo intento ad esplorare l’ambiente: era la voce di Marco, incerta e flebile ma senza dubbio la sua.

Un brivido percorse le vene dell’ex soldato: che un non morto avesse fatto capolino attaccando il suo compagno di viaggio? Senza pensarci troppo si voltò e, con la pistola spianata, uscì dalla porta. Appena varcata la soglia un’asse di legno gli centrò in pieno il petto spingendolo a terra come un sacco di patate, all’impatto l’inequivocabile rumore di un osso che si rompeva esplose insieme ad un fitto dolore alle costole. Quando Tiberio riuscì a fatica a riaprire gli occhi vide il contorno di una grande figura che si stava avvicinando, i passi pesanti rimbombavano come un martello su una campana. Nonostante non riuscisse nemmeno a percepire bene i propri arti tentò di fare l’unica cosa che poteva permettersi in un momento del genere: sferrare un calcio in direzione dei gioielli di famiglia. L’azione fu troppo lenta e impacciata per destare qualche tipo di preoccupazione nell’aggressore che schivò il colpo con un passo di lato, poco dopo giunse la risposta secca: un calcio ben assestato sul ventre. Tiberio soffocò un urlo di dolore per non dare troppa soddisfazione all’altro, era un dettaglio che aveva appreso sulla sua pelle in vari momenti della sua vita, soprattutto durante un interrogatorio.

“Pezzo di merda, che cosa siete venuti a fare sulle mie montagne?” urlò con voce roca quella specie di montagna umana mentre lo scavalcava con un passo lungo. Il cuore di Tiberio batteva all’impazzata mentre il cervello faceva fatica a ricevere una quantità sufficiente di ossigeno per ragionare a mente lucida, ben presto l’uomo si rese conto che doveva rimettersi in piedi, in qualunque modo, perché quella poteva trasformarsi nella sua tomba. All’improvviso, come colto da una grande idea, si accorse che le mani erano del tutto prive di armi, di certo la pistola era rotolata a terra e, nelle sue condizioni fisiche, era da escludere del tutto l’ipotesi di riprenderla prima di essere fatto fuori come un cane morente. Decise di agire, prese un respiro il più profondo possibile, interrompendosi quando una fitta alle costole lo avvisò di esser giunto al limite della sopportazione, e si girò sul fianco destro. Piantò le mani a terra e si issò sulle braccia con tutta la forza, pochissima a dire il vero, che riusciva a sfoderare. Pensava di avercela fatta quando la punta di uno stivale gli centrò in pieno il mento scaraventandolo fuori dalla porta come un pallone da calcio. Atterrò sbattendo la nuca con una violenza tale che pareva essere giunto ad millimetro dalla rottura, il dolore fu forte come quello che causa un’esplosione a breve distanza, gli occhi per qualche secondo videro stelle di ogni colore, come durante una grande festa, solo che in questo caso era Tiberio la torta da mangiare.

“Pezzo di merda, pensavi di scappare da qui? Ci creperai come il cane che sei, lurido verme mangia cadaveri” biascicò l’energumeno mentre si avvicinava trascinando un’ascia di grandi dimensioni, la lama luccicava alla timida luce del sole coperto dalle nuvole grigie, pronta a tagliare in due la carne.

Nella mente dell’ex soldato già si affollavano le immagini della sua vita, ormai prossima a finire nel peggiore dei modi: cucinato da un gigante poco intenzionato a fare amicizia col mondo. Provò a spingere ancora sui gomiti per rotolare di lato ma questa volta non ottenne alcuna risposta dai suoi muscoli: l’energia era ormai agli sgoccioli.

“Pensavo a come alla ricetta migliore per gustare un maledetto bastardo come te. Forse un bello…” il rumore secco del colpo di una pistola impedì all’aggressore di terminare la sua frase. Un tonfo accompagnò il silenzio, segno che il proiettile aveva colpito dove faceva più male.

“Cristo santissimo” fu tutto ciò che Tiberio riuscì a dire mentre il sudore continuava a colargli dalle tempie come un fiume in piena.

“Ti ho salvato” sussurrò Marco con la sua voce che a fatica si riusciva ad udire a mezzo metro.

“Dio mio, me la sono vista molto, molto brutta.”

Serie: Sei proiettili d'argento


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Horror

Discussioni

  1. Dimenticavo che in un mondo distopico non sono solo i morti, quelli di cui avere paura. I viveri scarseggiano e la “pietas” scompare rendendo i “vivi” altrettanto pericolosi

  2. “non né fabbricavano più di così buone da quando il mondo era diventato un posto popolato da morti quasi più pericolosi dei vivi.”
    Ah-ah! Eccolo!! Lo sospettavo ??
    Bene, bene, la vicenda si fa sempre più interessante

  3. E quindi, proprio alla fine, abbiamo scoperto che la vecchia pistola sparava bene. Ahahaha Bello anche questo episodio, Alessandro. Ci vediamo alla prossima.