
FILO SOTTILE
Serie: Ritrovarsi...
- Episodio 1: L’Archivio
- Episodio 2: Nessuno in Ascolto
- Episodio 3: RI…CONOSCERSI
- Episodio 4: IN MEZZO AI VETRI
- Episodio 5: FILO SOTTILE
- Episodio 6: LA SCELTA
STAGIONE 1
La sensazione di intrufolarsi in un’esistenza non sua gli gelò la pelle. Andrea si sforzò di scrollarselo di dosso, ma la voce di Marco, dal ‘75, era come un’ombra che gli parlava da un’altra stanza. Non poteva fermarsi. Tornò al diario.
31 ottobre 1975 — sera
Non festeggiamo niente: qui Halloween è una parola straniera, più o meno come “privacy”. Ci hanno fatto rimanere per pulire l’aula grande dopo l’assemblea. Ho passato lo straccio con Stefano. Mi ha detto: “Tu sembri sempre in maschera”. Ho risposto: “Meglio di niente”. Ha riso, poi ha detto che era una battuta. Io no. Oggi ho messo la maschera del ragazzo che non si offende. Mi sta larga, ma ci entro.
Sai cosa mi fa più schifo, Ludovico? Che non riesco a essere me stesso con nessuno. Con i miei, con i compagni, persino con le ragazze. C’è sempre un copione, e io mi limito a dire le battute giuste. E a mentire. Quello che penso me lo tengo. Quello che provo pure.
Andrea si passò una mano tra i capelli. Anche lui cambiava faccia più volte al giorno: buffone con Edo e Luca, figurante con Livia, muro a casa. Maschere leggere, da buttare via appena calava il sipario.
Con Edo e Luca la parte era sempre la stessa: scuola, canne, bar. Rideva quando bisognava ridere, anche se la battuta non lo sfiorava. Applauso finto, fine scena.
Con Livia andava peggio. Ogni gesto era già scritto, ogni parola ridotta all’osso. Se provava a dirne una sua, il copione saltava. Allora taceva: “ok”, “ci sta”, sipario.
Mentiva, sì. Ma prima di tutto a se stesso. I pensieri li lasciava marcire dentro, le emozioni le copriva con una battuta.
2 novembre 1975 — pomeriggio
Domenica pomeriggio a Milano è un cortile chiuso. Gli adulti fanno la schedina, i bambini giocano a pallone con un’arancia marcia. Io ho provato a studiare matematica: ho letto tre problemi, ne ho capito uno e mezzo. Mia madre ha bussato, mi ha portato un tè zuccherato come se fossi malato. Mi ha detto “non ti ammazzare di fatica”. Io mi ammazzo, sì… ma di cose che non stanno sui libri. Poi ha aggiunto “parla con tuo padre, ti vuole dire una cosa”. Ha bussato anche lui. I consigli sono caduti in fila come i birilli al luna park. Quando se ne sono andati, ho avuto la tentazione di scrivere un cartello: “INGRESSO CON PERMESSO”. Non per cattiveria: per poter respirare.
Andrea si morse l’interno della guancia. Non conosceva i tè zuccherati né i soldatini, ma il soffocare sì. L’aria che mancava era la stessa.
In chiesa ho acceso una candela, non per fede: per abitudine. Ho chiesto a Dio di farmi dormire senza sogni. Sogno troppo in piedi, la notte mi basterebbe il buio.
Chiuse gli occhi un istante. Buio come favore era perfetto. Avrebbe voluto chiederlo anche lui, ma senza doverlo a Dio.
6 novembre 1975 — mattino
Mi hanno chiesto di leggere ad alta voce in italiano. Ho detto sì. Ho letto male apposta, per non dare nell’occhio. Poi mi sono arrabbiato con me. Non si può perdere di proposito e pretendere di essere visti. L’ho fatto anche perché avevo bisogno di compatimento. Di una pacca, di un incoraggiamento. Nulla. Mi sa che sono un pessimo attore.
Andrea aggrottò la fronte. Lui non recitava per avere carezze: se cadeva, preferiva far finta di non sentire il colpo. Marco cercava una mano sulla spalla; lui, un pubblico che si distraesse. Compatimento? No, grazie.
Ho pensato di telefonarti, Ludovico. Poi mi sono ricordato che sei una pagina. Meglio: non occupi il gettone.
Gli scappò un mezzo sorriso. Gettoni non ne aveva mai visti, ma capiva il prezzo di una chiamata inutile.
8 novembre 1975 — sera
Oggi in classe abbiamo letto la lettera di Italo Calvino a Pasolini, pubblicata pochi giorni fa sul Corriere. Tutti bravi a scrivere quando l’altro non può più rispondere. Pasolini lo accusava di voler un’Italietta comoda, senza conflitti. Forse aveva ragione. Io ho provato a dirlo: che Pasolini non era un provocatore a vuoto, ma uno che spingeva a guardare la merda in faccia. Qualcuno ha riso, il prof ha abbassato lo sguardo come a dire ‘non andare oltre’. E lì mi sono fermato. Difendere Pasolini in classe è come alzare la mano in un plotone d’esecuzione: ti resta addosso il bersaglio.
La verità è che io l’ho sempre ammirato. Lui non risparmiava nessuno, nemmeno se stesso. Calvino invece ti accompagna piano, ti fa credere che le parole possano ordinare il caos. Io li leggo insieme: Pasolini ti schiaffeggia, Calvino ti accarezza. E io non so quale delle due cose mi serve di più. Non so cosa farò da grande. Forse niente. Forse non ci arrivo nemmeno a grande.
Magari sparirò come Pasolini, ma a me nessuno scriverà una lettera. Smetterebbero solo di inventarsi scuse per ignorarmi.
Un lampo secco. Andrea non sorrise. Non era felicità: era il riconoscimento di un compagno perso nello stesso corridoio. Andrea sfiorò il bordo della pagina come si tocca una ferita chiusa male, per sentire se brucia ancora.
Girò pagina.
10 novembre 1975 — tardo pomeriggio
Non tutti mi ignorano, in realtà. Lele, per esempio… a volte lo fa, a volte no. Di Lele ti parlerò un’altra volta.
A scuola mi isolo. È come sedersi sempre in fondo: da lì vedo tutto — chi si crede simpatico, chi vuole svanire, chi non sa neppure che esisto (Lele). Nessuno si accorge di me, e va bene così. È più facile osservare che farsi osservare.
Quando parlano di cose che non mi interessano, rido lo stesso. È più semplice. Se non ridi ti chiedono “che hai?” e non ho voglia di spiegarlo. Non capirebbero.
Andrea si piegò in avanti, gomiti sulle ginocchia. Lasciapassare: rollare, ridere, dire “ci sta”. Altri timbri sul cartellino del nulla. Rivide il termosifone rotto, l’angolo da cui osservava la classe muoversi come in un acquario.
Vedeva tutti. Nessuno vedeva lui. Anche a lui capitava di ridere lo stesso, solo per non dover dire la verità.
Abbassò lo sguardo. Il diario non chiedeva spiegazioni, non domandava “che hai?”. Restava lì, aperto: un amico che sa ascoltare senza parlare.
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- Episodio 6: LA SCELTA
Mi catturi sempre facile come un pesce con un’esca golosa coi tuoi scritti. Bravissimo.
Grazie davvero! Ci tengo a dirti che i tuoi suggerimenti e le tue segnalazioni per me sono oro: mi aiutano a crescere e a rivedere i testi con occhi nuovi. Quindi non smettere mai di darmeli, ben vengano sempre! Anzi, se un giorno non dovessi trovarne sotto i miei racconti… penserò subito che non mi hai letto!
“Qualcuno ha riso, il prof ha abbassato lo sguardo come a dire ‘non andare oltre’. E lì mi sono fermato. Difendere Pasolini in classe è come alzare la mano in un plotone d’esecuzione: ti resta addosso il bersaglio.”
Questo passaggio mi è entrato nel cuore. Complimenti 👏
Mi ha coinvolto come aempre anche questo episodio che fa emergere alcuni aspetti del malessere tipico di tanti adolescenti. Mi hai catapultato indietro nel tempo, nei miei anni settanta. Ho rivisto i miei comportamenti in classe, l’incomunicabilità con i miei genitori e i racconti di Pasolini, nell’antologia, che ci mettevano in difficoltà quando ci veniva assegnato il compito di commentarli.
Sembra quasi che, per magia, il diario sia stato scritto da un’altra parte di Andrea: la terza, quella che neanche lui conosce. Forse il taccuino rivela al protagonista come è lui veramente (un ragazzo incompreso che soffre di solitudine), mentre Ludovico è quello che vorrebbe essere (un ragazzo che non mette maschere perché non ha bisogno dell’accettazione degli altri). In mezzo c’è Andrea che si maschera, ne soffre e gioca a fare il duro, anche solo isolandosi. È ovvio che è solo una mia interpretazione. Bravo, Lino, aspetto il prossimo capitolo.
@conchita59 Hai colto perfettamente il senso: attraverso la lettura del diario Andrea comincia a guardarsi dentro e a scoprire ciò che teneva celato. Marco diventa il suo specchio, diverso ma capace di farlo riflettere, anche a distanza di cinquant’anni. Ludovico è la sintesi, l’aspirazione di entrambi. Quanto ad Andrea… cambierà, sì, ma in un modo che forse neanche lui immagina ancora.