Fortunata!

Fortunata era rimasta incinta a sedici anni. Il suo ragazzo si era dileguato appena appreso del lieto evento. Lei non perdeva occasione per dire di lui tutto il male possibile e il rancore per quell’amore deluso andò avanti finché non conobbe Maurino, il suo nuovo fidanzato. Questo era un ragazzo ammodo, mica come l’altro. Quando rimase incinta del suo secondo figlio, lui le confessò che era sposato e che era dispiaciutissimo perché, pur volendole bene, doveva cavarsela da sola.

Gli assistenti sociali, che per anni aveva visto andare e venire da casa sua, questa volta non tardarono a farle visita prospettandole un allontanamento temporaneo dei minori a “fini di sostegno”, una sorta di antidoto alla sua fecondità e alla sua povertà.

Siccome ai suoi figlioli Fortunata ci teneva, riuscì a strappare ai servizi una proroga con la promessa di trovare un lavoro e una casa. Tuttavia, non fidandosi abbastanza di se stessa e nemmeno dell’assistente sociale, pensò che se avesse trovato un brav’uomo che facesse da padre ai suoi bambini, avrebbe risolto metà dei suoi problemi. Il prescelto aveva quindici anni più di lei e un banco di frutta e verdura al mercato rionale che spostava tra Scandici e Le Cure. Agli occhi di Fortunata, che nella borsa contava solo pochi centesimi, Massimo apparve un buon partito. Quel pomeriggio andò a smontargli il banco e gli ripulì il furgone. Malgrado la trovasse secca e avesse il ventre prominente per via delle due gravidanze ravvicinate, Massimo apprezzò la giovane età e la sua buona salute. Tuttavia per prudenza le fece qualche domanda doverosa: “Mica tu vorrai un altro figliolo?”.

“Ma che tu dici, ne ho già due, e poi se ti fò schifo me ne vo”.

Fu così che iniziò la convivenza tra Fortunata e Massimo. Lei cominciava a sfacchinare dalla mattina presto: all’alba lo accompagnava ai mercati, poi tornava a piedi e provvedeva alle necessità di casa. Il pomeriggio lo raggiungeva per dargli il cambio e la sera, esausta, doveva sistemare la casa e i bambini. Spesso anche la domenica, invece di riposare, andavano a Fucecchio dove Massimo lavorava nello spazio che un amico gli concedeva. Ogni tanto Massimo s’infuriava con lei e la chiamava “bestia”. Sua madre, l’unica con cui Fortunata si confidava, riteneva una cosa normale che un uomo sgridasse la sua donna perché tanto non lo pensano mai veramente. Per quanto quella situazione non fosse proprio ideale, a Fortunata sembrava comunque meglio di quella da cui proveniva: nella sua famiglia erano tutti poveri e mangiavano con i buoni del comune o alla Caritas quando proprio andava male. Suo padre e sua madre, si diceva in giro, fossero anche parenti ma erano tutte frottole messe in giro dalla cattiva gente, perché – si sa – la gente detesta i poveri.

Siccome dopo aver fatto le faccende e portato i figli dalla madre a Fortunata rimaneva un po’ di tempo libero, Massimo le propose di fare da baby-sitter alle figlie della sua amica Ines, così avrebbe contribuito alle spese di casa, dal momento, disse, che: “Ognuno ha da fare la su parte”. Ogni giorno alle quattro in punto Fortunata andava a prendere a scuola le figlie della Ines ma quelle l’accoglievano con calci e sputi e spesso le davano della puttana pur avendo solo sette e otto anni. Fortunata faceva finta di nulla e percorreva la strada in fretta, sperando di non incrociare nessuno. A casa non andava meglio, perché le due sorelle litigavano in continuazione e spesso, quando cercava di mettere pace, riprendevano ad insultarla. Un pomeriggio, i litigi iniziarono intorno al possesso della nuova Barbie. Uno sputo era stato seguito da uno spintone che aveva fatto cadere la più piccola su un vaso di ceramica che sosteneva una triste pianta di plastica. Il vaso si era rotto e dalla fronte della piccola era sgorgato un po’ di sangue sufficiente per scatenare i loro pianti. Quando la Ines mise piedi in casa e vide le due figlie esangui sul divano e i cocci del vaso raccolti in un angolo, non fece discorsi e dopo nemmeno una manciata di secondi Fortunata sentì arrivare un colpo tremendo sulla bocca che fece scricchiolare un incisivo. Le bambine risero e Fortunata se ne andò mentre la Ines diceva che le avrebbe trattenuto dalla paga il costo del vaso.

Quella sera dovette sorbirsi anche i rimproveri di Massimo. A nulla valsero le sue spiegazioni, perché Massimo le disse chiaro e tondo che se perdeva il lavoro andava fuori dai coglioni e chiuse la questione con un ceffone sull’altra guancia. Fortunata ritornò dalla Ines con il capo chino e il cuore a pezzi. Le due bambine che avevano capito quanto poco contasse al mondo, iniziarono a vessarla con maggiore continuità e si coalizzarono per farle scherzi di ogni genere. Fortunata fingeva di non vedere e non sentire e le lasciava fare quello che volevano, salvo cercare di mettere in salvo i ninnoli della Ines. Le bambine, per nulla appagate da quella remissività, la pungevano con frasi indicibili: “Ma è vero che sei una puttana? Mamma dice che sei una poco di buono e che i tuoi figli sono figli di nessuno”. Sei una TROIA. TROOOIAA”.

Fu durante uno di quei pomeriggi che, nel sentire le solite frasi, Fortunata si girò verso di loro come ipnotizzata. La colpa era stata della sua insonnia: quella notte aveva dormito poco e la mattina, invece di alzarsi, avrebbe voluto rimanere a letto con la coperta tirata fino agli occhi. Al sentire le solite brutte parole, Fortunata si era come ridestata e in preda alla rabbia aveva preso la più grande per i capelli. Mentre la bambina più piccola cercava di sferrarle dei calci, Fortunata aveva iniziato a colpirle con una fitta serie di ceffoni che fece cambiare il colore delle loro guance.

Quando si calmò, Fortunata lasciò la presa e le due si nascosero in bagno. Quel pomeriggio andò via senza aspettare la Ines. Tuttavia la sera la rabbia per quanto successo era già scemata e addosso le era rimasta solo la paura di Massimo. La reazione non si fece attendere. Questa volta un pugno in piena faccia le ruppe l’incisivo già smosso dalla Ines e se non fosse stato per natura vigliacco e pauroso delle conseguenze, avrebbe continuato a batterla fino a farla a pezzi davanti ai bambini.

Fortunata se ne andò da casa il giorno dopo portandosi via i figli. Si era rivolta all’assistente sociale che da anni controllava suo padre e sua madre. Le avevano trovato un posto in una comunità e lì l’avevano abbandonata dopo la denuncia per maltrattamenti che il giorno dopo aveva depositato davanti ai carabinieri di Castello. Fu una permanenza breve. In stanza con altre tre ragazze finì per litigare con ognuna di loro ma fu con la peruviana Monica che Fortunata tirò fuori tutta la rabbia che aveva dentro. Quando Monica la chiamò “zia” e le disse che sembrava una zingara, Fortunata si ricordò della Ines e centrò la compagna di stanza con un destro che sorprese Monica lasciandola lunga distesa in bagno, tra la doccia e il bidè. L’assistente sociale la minacciò di nuovo e Fortunata, che di tutta quella situazione si era già pentita, telefonò a Massimo e gli raccontò tutto.

Massimo arrivò nottetempo e corse a prenderla da una porta laterale, portandola via con i figlioli al seguito. In realtà avrebbe voluto darle una lezione ma era troppo spaventato, così le diede solo uno schiaffo leggero che non lasciò traccia. La denuncia lo tormentò per mesi, L’avvocato diceva che per quella non c’era niente da fare. Fortunata, in preda ai sensi di colpa, trovò un altro lavoro da baby-sitter e tornò ad aiutare Massimo alla bancarella, lavorando più di prima.

Gli assistenti sociali ora venivano a casa sua ogni giorno. Massimo si faceva trovare in cucina ad asciugare i piatti o a piegare i panni. Lo faceva per cinque minuti fintanto che durava la visita e Fortunata dentro di sé sorrideva per quella scena, finta come un film, alla quale poteva credere solo una scema dei servizi sociali. L’avvocato diceva che non bastava e che malgrado avessero fatto pace, Massimo rischiava ancora la prigione. Fu così che Fortunata dovette mettere in atto il piano d’emergenza che l’avvocato aveva suggerito per evitare il processo: concepire un altro figliolo in fretta e furia e sperare che il giudice ci cascasse. A ventidue anni, pur non volendo altri bambini, Fortunata partorì per la terza volta. Si disse che quella era veramente l’ultima.

Il caso venne archiviato e Massimo tornò a batterla con una certa regolarità ma senza conseguenze. Fortunata, che di tutta quella vicenda aveva tratto le sue amare conclusioni, non si lamentava più per la sua sorte perché almeno adesso aveva un tetto sulla testa e, a parte Massimo, nessun poteva menarla o dirle cosa fare.

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Discussioni

  1. L’aspetto che più mi ha colpito di questo LibriCK intriso di realismo, è la miseria umana che domina le vite di chi, per necessità, tenta di stare al mondo con pochi mezzi. Ma in quel nome, Fortunata, c’è forse una tragica volontà della sorte di prendersi gioco di una giovane donna? Dov’è la fortuna in chi, pur di adattarsi, accetta continue vessazioni e da sempre si accontenta del meno peggio?

  2. “Ma è vero che sei una puttana? Mamma dice che sei una poco di buono e che i tuoi figli sono figli di nessuno”. Sei una TROIA. TROOOIAA”
    Trovo esilarante la cattiveria genuina dei bambini. Lo so, non dovrei, ma è cosí: sono dei simpatici figli di…

  3. Una rappresentazione asciutta e senza preamboli di una famiglia disfunzionale (all’origine) che genera figli infelici all’inizio che poi diventano adulti altrettanto infelici e privi, purtroppo, di strumenti per autodeterminarsi, il tutto condito dal lavoro dei servizi sociali che se da una parte svolgono un lavoro “tecnico”, dall’altro quando tentano di fornire adeguato supporto quest’ultimo non viene colto. Insomma, si generano catene generazionali malate a non finire. Apprezzato.

  4. Beh, in molti casi si dice “nomen omen”, ma questo non è proprio il caso della povera Fortunata.
    Un racconto il cui contenuto, tragico e terribilmente realistico, contrasta con lo stile “leggero” con cui è scritto, in un risultato a mio avviso efficace.