Fra uno Ieri ed un Domani – Ritorno

Serie: Fra uno Ieri ed un Domani


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Racconto di memorie e di futuro

Per andare al lavoro salgo sempre sull’ultimo treno della giornata, che quando scendo è diventato il primo della giornata successiva. Mi considero un privilegiato per questo. Posso vantarmi di fornire il mio contributo alla società, in un colpo solo, durante quelle che per voi sono due caselle distinte del calendario, mentre ai miei occhi si tratta di un giorno solo. Non fosse che così ho l’impressione di vivere costantemente fra uno ieri ed un domani, perdendomi l’oggi.

Non ci sono più molti treni che si fermino nella mia stazione, per cui, a quelli che ancora lo fanno, in fondo sono grato.

Probabilmente vi chiederete perché non mi trasferisco più vicino a dove mi guadagno da vivere, più vicino alla città, più vicino a tutto quello che la gente si illude gli renda la vita migliore. A me va benissimo così.

Il fatto che ci sia un treno che si fermi lì davanti a me, che lo veda rallentare la sua corsa non appena quegli occhi luminosi si accorgono della mia presenza qui, su questo marciapiede su cui mi trovo ogni sera, che faccia bello o grandini, che si soffochi nella calura o si geli come su un pianeta senza atmosfera, questa cosa mi regala il miraggio di qualcuno che, alla mattina, si è svegliato ed è sceso dal letto anche per me. Perché, fra tutte le altre sue mille ragioni, sapeva che, a fine turno, l’ultima cosa che gli sarebbe rimasta da fare sarebbe stata quella di raccogliermi sul binario per permettermi di andare ovunque io dovessi andare.

E così salgo quei tre scalini che mi elevano un po’ da questa terra, come se fossi più leggero, più scarico di responsabilità, di pensieri, di fardelli, e per il tempo che ci vuole mi prendo una pausa, mi avvolgo in una parentesi che mi protegge da quello che c’è fuori, che mi tiene al caldo in inverno, all’asciutto in autunno, al fresco in estate, in attesa in primavera.

Non si vede niente fuori dal finestrino, solo qualche lampione, i fanali di un’auto che mi incrociano lungo la strada che costeggia la ferrovia e il riflesso del mio volto, illuminato dalle luci sopra la mia testa, che a volte sembra salire verso l’alto come una lanterna cinese nel buio della notte.

Raramente, in fondo alla carrozza, alle mie spalle, la porta divisoria si apre. Posso sentire il cigolio delle guide mentre si muove lateralmente permettendo a qualcuno di entrare nel mio vagone.

Quando succede, ci sono momenti in cui mi piace pensare che tutto, dall’attimo in cui sono venuto al mondo, dall’attimo in cui quel qualcuno è venuto al mondo, tutto ciò che sono state le nostre vite, prese separatamente, non sia stato altro che il presupposto, la condizione indispensabile, il meccanismo perfetto di un moto perpetuo che ha concorso, come suo unico scopo, a fare sì che ci incontrassimo su questa carrozza ora, in questo preciso istante.

Si tratta di un’illusione, naturalmente, dalla vita breve come quella di un’effimera, destinata a venir meno nell’istante in cui quel viaggiatore notturno supera lo scompartimento in cui sono seduto senza nemmeno degnarmi di uno sguardo, per poi scomparire oltre la porta a vetri, al di là della mia visuale.

Nulla di insolito in questo, ho imparato che la gente che viaggia di notte tende ad essere schiva, solitaria, riluttante al contatto. È una forma di protezione, ed in fondo nemmeno io faccio eccezione a questa linea di comportamento.

Però ditemi, vi è mai capitato, qualche volta nella vita, di sorprendervi? Che gli eventi siano usciti dagli schemi, che si sia azionato lo scambiatore ed il vostro vagone abbia preso una direzione inaspettata?

Qualcuno che, nonostante la carrozza sia completamente vuota, si sia fermato proprio davanti al vostro gruppo di sei sedili, abbia aperto, vi abbia guardato, non attraverso di voi ma proprio voi, e garbatamente vi abbia domandato:

«Mi scusi, sono liberi questi posti?»

Ditemi che vi è successo. Ditemi che non sono impazzito.

È tutto così nuovo per me, ho bisogno di qualcuno che mi dica che va bene, che si può fare, che a volte abbassare la guardia è pericoloso ma che quel pericolo è così dannatamente sublime da risultare necessario, da chiedersi in che modo si sia potuto vivere senza sino ad ora.

La parte razionale di me stesso, quella che ha sempre avuto il sopravvento, quella che mi ha protetto e al tempo stesso mi ha soffocato in tutti questi anni, ha provato in ogni modo a richiamarmi al suo volere come si fa con un cavallo normalmente docile e mansueto, che all’improvviso decide di diventare testardo ed orgoglioso, ma io l’ho combattuta con tutte le mie forze e, non essendo abituata ad un simile moto di autodeterminazione, si è trovata costretta a dover desistere dopo pochi tentativi.

Ho guardato quella persona sconosciuta e ho risposto: «Sì, sono liberi», spostando la mia giacca e il mio borsello dai sedili, riponendoli sul piano porta oggetti sopra di me, per fare un po’ di posto al nuovo arrivo, anche se non ce n’era bisogno, come gesto di buona volontà e di accoglienza.

E quando ho visto tirare fuori dalla sua borsa una copia de “Il deserto dei Tartari” e posarlo sul tavolino a scomparsa attaccato al finestrino, ho riconosciuto nel segnalibro in legno che sporgeva dalle pagine del volume lo stesso oggetto che usava mio padre.

È ancora lì quel segnalibro, nell’ultimo libro che mio padre ha tenuto in mano. L’ho lasciato nella stessa identica posizione in cui lo ha lasciato lui, fra i brani del romanzo che stava leggendo la notte in cui è morto nel suo letto.

Dunque ho creduto che in quell’incontro fosse mio padre a parlarmi, lui che nel suo ruolo di genitore, quando era in vita, sembrava avesse fatto di tutto per sforzarsi di comunicare con me senza però esserne mai stato capace.

E allora ho inaspettatamente trovato il coraggio di non sprecare quelle parole mai pronunciate, e di dire a quella persona:

«Lo sa? È il mio libro preferito.»

L’ospite ha spostato lo sguardo dal buio dell’esterno e mi ha osservato con curiosità, forse non aspettandosi tanta audacia da uno come me, quasi mi conoscesse, e giocherellando con il piccolo crocefisso d’oro appeso al collo mi ha risposto:

«Io lo sto leggendo per la seconda volta. Cosa lo ha reso così importante per lei?»

E in quella domanda, in quell’attimo impalpabile, talmente breve da non poterlo misurare, è cominciata la mia nuova vita.

Così ora sto viaggiando alla luce del sole, in questa mattina d’agosto luminosa e già afosa, nonostante manchi ancora più di un’ora a mezzogiorno. C’è luce fuori dal finestrino, ed io osservo il paesaggio che scorre davanti ai mei occhi con l’avidità di un uomo che ha ritrovato la vista dopo una vita di cecità.

Devo fare uno sforzo di memoria per ricordare l’ultima volta in cui mi sono ritrovato, di mattina, su di un treno che non mi stesse riportando a casa, dopo una notte di lavoro. L’ultima volta in cui la mia giornata non stava finendo nella solitudine, ma iniziando in direzione di qualcuno.

Come oggi. Oggi che finalmente posso dire di sentirmi libero. Io che non ho mai avuto il coraggio fino ad ora di dichiararmi prigioniero.

Ci ho messo un po’ a ritornare ai ritmi e agli orari di voi tutti, le abitudini sono dure a morire. Quando mi sono svegliato qualche ora fa, riposato dopo un sonno ristoratore, dopo essere andato in bagno ed essermi guardato allo specchio, riflettendo sul fatto che oggi non mi sarei rasato e che sarebbe stato il giorno in cui avrei deciso di farmi crescere la barba, mi ha attraversato la mente un pensiero leggero come un macigno, pesante come una piuma.

Ho abbracciato l’idea che qualsiasi cosa accada oggi, in qualsiasi modo si concluda questa giornata, qualsiasi, potrò chiudere gli occhi con la sicurezza che ne sia valsa la pena.

E visto che non ho più modo di dirtelo a voce, papà, forse posso comunque scrivertelo, nella speranza che queste parole ti raggiungano in qualche modo a me sconosciuto nella prossima vita che vivrai, se è vero che l’universo concorre sempre all’avverarsi delle cose che si devono avverare.

“Caro papà, fremo dalla voglia di raccontarti quello che mi è successo. I tempi, oggi, sono ancora recalcitranti a quello che sto per dirti, ma so che un giorno capirai. Leggerai le parole di un uomo che non ricorderai di avere mai conosciuto e lacrime di gioia ti righeranno il volto senza sapere il perché. Voglio farlo ora, mentre aspetto di ripartire, in questa mattina intrisa di occasioni e di promesse da mantenere. Qui a Bologna, in questa città che non conosco, dove sono solo di passaggio, mentre aspetto che riparta il mio treno.

È passato un anno esatto da quando te ne sei andato, siamo entrati in un nuovo decennio che tu non hai avuto modo di conoscere, ed oggi 2 Agosto 1980, alle 10.25, posso finalmente dir

Dedicato a tutte le Vittime

Serie: Fra uno Ieri ed un Domani


Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. è un finale che sorprende e sconcerta, ma senz’altro era questo l’effetto che volevi ottenere. Si tenta di salvarsi nascondendosi nell’ombra dei treni all’alba o di notte e si muore quando si entra nel flusso della vita insieme agli altri: ma in realtà si muore comunque. Ora mi viene da pensare a cosa avranno avuto per la mente i morti di Bologna e di altre stragi poco prima che le bombe esplodessero e non credo di poter continuare il commento.
    Mio padre, tuo padre, noi stessi: chiunque avrebbe potuto trovarsi su quel treno.
    Grazie, Roberto, un gran bel lavoro.

  2. Il tuo racconto è un saliscendi di emozioni. E lacrime, che sono scese leggendo le ultime righe. Mi ha presa un’estrema malinconia, al pensiero di come l’abbraccio del volo sia stato crudelmente tranciato dal fato. Giusto ricordare, quante vite e voli spezzati quel giorno.

  3. Quanta poesia in questo tuo scritto e quante emozioni si sono succedute durante la lettura, giù giù verso un finale toccante. Sono moltissime le frasi o immagini che mi piacerebbe citare, tra queste mi colpiscono particolarmente il volo terminale dell’effimera; oppure l’idea di incominciare la propria giornata a bordo di un treno che per tutti rappresenta invece il ritorno alle proprie case. Più di tutto il concetto dell’abbassare la guardia. Si può sai, te lo dice una che vive così. Leggendoti mi ritrovo spesso sospesa in una dolcissima incertezza, quella linea di demarcazione fra il creare storie e il tirarle fuori da dentro. Grazie

    1. Grazie Cristiana, i tuoi commenti si lasciano sempre leggere senza mai passare inosservati. Mi ci ritrovo spesso anche io sul quella linea di demarcazione, vuol dire che prima o poi ci incontreremo.

  4. “Nulla di insolito in questo, ho imparato che la gente che viaggia di notte tende ad essere schiva, solitaria, riluttante al contatto. È una forma di protezione, ed in fondo nemmeno io faccio eccezione a questa linea di comportamento.”
    Wow!

  5. Bello, come spesso accade con i tuoi scritti. Bello per com’è scritto e per il tema trattato.
    Strano, ricordo poco di quel giorno. Era un periodo molto particolare per me, estremamente critico per l’età che attraversavo ma soprattutto per gli eventi personali che stavo vivendo. Eventi per qualche verso traumatici. Credo che in quella fase io non fossi davvero in grado di ricevere altri stimoli dall’esterno. Per di più quegli anni ci avevano abbondantemente abituati agli eventi di estrema violenza, assai più di qualunque film o videogioco possa oggi “abituare” i ragazzi. Alla faccia di tutti gli esperti che suggeriscono di vietare film e videogiochi.
    Così, dicevo, ricordo poco della strage di Bologna. Come tutti, so tutto a posteriori. Così mi hai colpito due volte, per la storia del treno e del viandante con il libro, e perché mi hai portato proprio su quel treno, e mi sono sentito saltare in aria con il personaggio che scrive la lettera.