Gelatina (3)

Serie: L'Urlo Muto delle Ombre


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Gelatina - Capitolo 3. Gianni è da solo in casa, e il suo labrador Harley è inquieto. E' notte, e la casa si anima di tutti quei rumori che si sentono solo quando siamo spaventati. Perchè in fondo è tutta immaginazione... no?

“Quindi” attaccò Gianni cercando di riprendere il filo. “Ah sì. Mi sono svegliato nel cuore della notte. Fu un rumore simile a quello di qualche ora prima a destarmi. Sulle prime sentii la rabbia montarmi nel petto e diffondersi fino alle dita dei piedi. Gettai da un lato la coperta, intenzionato a dare una bella sgridata a quel cane nottambulo, quando udii un altro suono.”

Enrico seguiva con attenzione, sempre più in apprensione.

“Un verso, più che altro,” si corresse Gianni. “Il gemito di un cane.”

“Dannazione! Harley?”

“La chiamai, ma non mi uscì più che un filo di voce, e lì per lì non capii perché d’un tratto iniziai ad essere spaventato. Che ragione avevo di preoccuparmi? D’altronde eravamo in casa, e cosa potrebbe fare del male a un Labrador di trenta chili? Un cane più grande, se vogliamo rimanere nei limiti del possibile.”

“O un orso” aggiunse Enrico, e non scherzava più di tanto. Se non c’era di mezzo un ladro o un altro cane, allora cosa avrebbe potuto mettere a tappeto un cane adulto di taglia media? Lo sguardo di Gianni sembrava dirgli oh, magari fosse stato un orso!

“La chiamai ancora un paio di volte. Sempre silenzio.”

“Iniziai a farmi coraggio e mi decisi di andare a controllare. Quindi mi alzai e camminai verso la porta, ed ero a metà strada quando udii un fruscio. Il rumore di qualcosa che strisciava avvicinandosi. E poi dei gorgoglii, come quando non digerisci un pasto pesante, e altri versi gutturali che a pensarci mi viene il voltastomaco. Lo udii mentre attraversava il soggiorno, strisciando silenziosamente e producendo di tanto in tanto un suono stridulo a contatto con le mattonelle più vecchie, poi uno struscio ruvido e sommesso mentre strisciava sulla moquette del corridoio delle camere.”

“Ma cosa? Cos’era?” chiese Enrico.

Gianni proseguì senza rispondere.

“Mi fiondai nel letto. Spensi la luce e mi coricai portandomi le coperte fino a sopra il naso. Come i bambini, lo so. Ma non puoi immaginare la paura che provavo in quel momento, mentre quell’essere – qualunque cosa fosse – strisciava avvicinandosi alla porta. Il nodo che mi si formò in gola, e lo stomaco … la vidi strisciare nel corridoio.”

“Hai visto cosa?” chiese Enrico in stato di crescente ansia. Sembrava sul punto di saltare dalla poltrona.

“Attraverso lo spiraglio della porta,” continuò Gianni incurante dell’agitazione di Enrico, “scorsi l’ombra di una massa informe che scivolava sul pavimento producendo quel suono viscido e allo stesso tempo ruvido. Pensavo che sarei svenuto – ormai avevo data per certa la mia fine, cazzo – quando mi accorsi che non si stava curando della mia presenza. Forse quella cosa era cieca, o sorda… o forse per quella sera era sazia.”

“Che vuoi dire?” domandò Enrico. Gianni non lo udì.

“Sentivo quell’orribile struscio molliccio allontanarsi per il corridoio. Poi si fermò, e per qualche secondo ci fu solo il silenzio. Mi ricordo che riuscivo a distinguere il ronzio del frigorifero dalla cucina; non ricordo di averlo mai sentito dalla camera da letto, quindi dovevo essere teso come la corda di un violino. Poi il fragore di un vetro infranto. Ancora il fruscio. Lo schiocco di qualche brandello di vetro che andava in frantumi; un tonfo sordo, da più lontano – da fuori la finestra, pensai – e infine, di nuovo il silenzio.”

Gianni guardava fisso il tavolino disseminato degli aloni circolari lasciati dalle lattine posate ogni volta in un punto diverso. Sembravano tanti occhi e parevano guardarlo. Ne contò nove, tra il suo lato e quello dove aveva bevuto Enrico. Forse quella cosa aveva nove occhi disseminati per il… si può dire che avesse un corpo?

Gianni deglutì a fatica.

“Lasciai passare un’ora. Forse meno, forse più, non lo so. Poi mi alzai, e senza accendere la luce mi portai nel corridoio in cui soffiava una corrente gelida. Sul momento mi ricordò quando io e mio fratello visitammo l’antica cripta di famiglia, per vedere se c’era spazio per nostra madre. Dio la benedica, beata lei.”

Enrico commentò quell’ultima frase con il silenzio e corrugando la fronte. Gianni proseguì.

“Guardai a sinistra, e vidi i riflessi bianchi della luce lunare nella sagoma frastagliata del vetro infranto della finestra. Feci un passo in quella direzione – volevo vedere se quel mostro era ancora nelle vicinanze; avevo ancora impresso nelle orecchie quell’orribile gorgoglio e il suono che emetteva strisciando sulla moquette, ma allo stesso tempo ne ero attratto -, quando avvertii sotto la pianta del piede sinistro dapprima un tepore, poi la sensazione di aver pestato qualcosa di molliccio. Dio solo sa come ho fatto a non vomitare; era così viscido. Ed era caldo, Enrico. Caldo!

Enrico fissava Gianni inorridito, gli occhi sgranati per l’incredulità.

“Alzai il piede, e la sostanza restò per una porzione attaccata alla pianta del piede, e per il resto colò sul pavimento producendo quel rumore, Splat, come nei fumetti.

“Accesi la luce. Vidi. Gridai.”

“Cos’hai visto? Non dirmi che quella roba…”

Gianni annuì, fissando il tavolino dagli occhi che sembravano pozzi neri.

“La moquette del corridoio era imbrattata di una sostanza rossa gelatinosa. Qua e là c’erano dei grumi più grossi degli altri, ma la cosa mi manda fuori di testa è che dentro potevo distinguere…” Si bloccò.

“Distinguere cosa?” esclamò Enrico protendendosi in avanti.

“Peli bianchi.”

Sul volto di Enrico si dipinse il più autentico sgomento. Aveva rimuginato tutta la notte passata in bianco e tutto il mattino e il pomeriggio fino a quella sera, chiedendosi se il suo migliore amico non lo avesse dato per pazzo. Ma dalla sua faccia, Enrico capì che aveva creduto a ogni parola del suo racconto.

“Peli bianchi” ripeté Gianni portandosi le mani al volto rigato di lacrime.

“Oh Cristo…”

Serie: L'Urlo Muto delle Ombre


Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Horror

Discussioni

  1. Sei riuscito a trasmettere le sensazioni fisiche dell’incontro con la Gelatina: il calore, la consistenza… Così come la percezione dei peli bianchi e i rumori della sostanza immonda… Forse l’unico senso che non hai utilizzato in modo esplicito è l’olfatto, ma questo permea il racconto già dal primo episodio (il “brodo”…)
    Ottimo!

  2. Persone come lo zio Giglio ce ne sono tante. Una volta ero andata a far visita a una mia amica. Arriva il marito (accumulatore seriale) e mi offre un succo di frutta, mentre io penso: “Ma perché non mi offri una grappa Nardini a 50 gradi? Perlomeno quella non ha scadenza.” Apre il succo e, anche se non era gassato, esplode imbrattando la stanza, i mobili e tutti noi… e io che dico per non metterlo in imbarazzo: “Evvivaaaa, porta bene…” Bravo come sempre.