Gli echi nella tempesta

Serie: Il buco nero


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Arianna non si scompose al mio contatto, nemmeno al nome flebile della sorella. Mi disse che quando c’erano le tempeste di neve i suoi genitori rimanevano quasi l’intero giorno a letto, per alzarsi solo a tarda sera, col buio. Era meglio attenderli, pensai. E così feci.

Ritornai a sedermi al mio posto. Lei mi parlò di un raduno della sua classe di liceo. Si sarebbero incontrati prima del Capodanno, in un paese vicino, ma lei non era sicura di andare. Non ricordava quasi nulla di loro. A scuola, nella sua classe, era stata sempre in disparte e non aveva mai legato con nessuno. Ecco perché non si spiegava la loro telefonata e l’insistenza di alcuni suoi vecchi compagni, che volevano a tutti i costi che lei ci fosse.

«Da quanto non vi sentivate?» le chiesi.

«Saranno anni. Dall’ultimo giorno di scuola.»

Arianna stava sciacquando le tazze e la mia voce era attutita dallo scroscio d’acqua sulle sue mani. Quando chiuse l’acqua, si asciugò le mani in uno strofinaccio e poi mi invitò a seguirla nella stanza del camino. Quando ci ritrovammo lì, al tepore delle fiamme, tradì un’espressione strana, alquanto provata. Mi disse, all’improvviso, che le era capitato di conoscere un ragazzo per telefono, che non era della sua scuola.

«È successo per puro caso. Un suo errore telefonico, e poi… l’aver percepito dalla sua voce che non era il momento di attaccare, perché mi avrebbe spaventato il pensiero di non sentirlo più. Glielo dissi. Trovai questo coraggio. Abitava lontano da Torella. Non mi disse dove. Gli chiesi chi cercava. Mi fece il nome di un suo amico, che compiva gli anni. «Se ha sbagliato solo una cifra, una delle ultime, potrebbe essere di qui» ma lui non mi rispose. Mi sussurrò che sarebbe stato contento di risentirmi. Ci scambiammo i numeri. Per un mese non ci sentimmo. Una domenica mi chiamò lui. Ricordo che pioveva; c’era Elvira accanto a me, a cui non avevo detto niente. Si informò su come stavo, che cosa avevo fatto, cose semplici. Gli dissi che pioveva e che lo avevo pensato. «Alla mia voce?» mi fece lui. Elvira mi guardava e mi rendeva difficile essere naturale, così gli chiesi la cortesia di aspettarmi e cambiai telefono – ve ne era un altro nella camera da letto dei miei genitori. Elvira rimase male per il fatto che non volessi parlare al telefono in sua presenza. Non era mai successo. Quando le telefonavi tu, lei non mi nascondeva niente, e continuava a parlarti con naturalezza e affetto, a occhi chiusi, come suo solito. Ero sempre io a farmi da parte, se mi diceva di restare, che non era nulla di personale, poi.»

Confermai ad Arianna che durante le telefonate con Elvira non accadeva nulla di particolare, di personale o segreto che non poteva essere sentito; e che non mi era mai capitato di chiudere gli occhi e abbassare la voce, come faceva lei, quando era con me e li telefonava. 

«Erano telefonate comuni, dove non si avvertiva nulla, almeno dall’esterno. Come tra due amici.» 

Lei mi guardò con un’espressione delusa. Si mise alla finestra, a guardare la neve che impazziva nel vuoto. Il bianco della tempesta offuscava ogni cosa. Non si scorgevano più i lampioni, la strada, le case, i fili della luce. Era tutto sfumato in una dimensione irreale, nello stesso abisso dove avevo perso sua sorella, in modo inspiegabile. Le accennai qualcosa, di molto confuso, ma Arianna non parve comprendere il senso delle mie parole. Mi dava le spalle, quando mi disse:

«Ti sto perdendo. Riesco a seguirti, ma poi succede che qualcosa si interrompe, come succede con la radio in cucina. Persino con le pile nuove, il segnale si diverte a gracchiare e a rovinarci la trasmissione sul più bello».

«Sarà colpa delle montagne, forse.»

«Mio padre la pensa allo stesso modo. Secondo mia madre, invece, è colpa delle pile che ci vendono come nuove e che invece non lo sono. E incolpa mio padre di non comprare la confezione intera, perché lui ne prende sempre sfuse, quindi solo due, il numero necessario perché la nostra radio funzioni. Le porta sempre in un foglio strappato di giornale. Secondo mia madre sono pile difettose. Mio padre dice che il rivenditore, Augusto, che è un suo amico, è una persona onesta  e non ingannerebbe mai nessun cliente, a maggior ragione lui. La colpa non è delle pile ma del segnale, insiste.»

«La mancanza del segnale potrebbe dipendere dalle pile. Uno dei primi sintomi che le pile stanno andando è proprio la cattura del segnale» le dissi.

«Perché la chiami cattura? Non ho mai sentito qualcuno parlare così di un segnale radio, ma solo di animali o di ragazze o di bambini rapiti.»

Feci un passo indietro. Le proposi di ritornare al punto precedente: a sua sorella Elvira.

«Com’era Elvira da piccola?»

«I miei genitori hanno sempre detto che era una bambina tranquilla. Non avevano vergogna o timore di quell’aggettivo, ma non hanno mai osato aggiungere che non aveva mai pianto, né in loro presenza e nemmeno di nascosto.»

«Significa che non aveva ragioni di piangere.»

«Non lo so, può darsi. Ma il fatto che non piangesse mai non significava che fosse felice.»

«Per cui si tratteneva le lacrime dentro, secondo te?»

 «Io e lei, fin da piccole, abbiamo patito le privazioni più elementari, che mio padre riteneva – e ritiene – essenziali per il nostro percorso evolutivo, la nostra educazione, ma in particolar modo per il nostro equilibrio mentale. Il male della mente, ci ripeteva di continuo, si combatte con le regole e il rigore spirituale. Altrimenti potremmo cadere nel labirinto senza accorgercene. Elvira mi parla spesso di una sua amica che è entrata nel labirinto per colpa della fissità del pensiero. Alla fine si è persa, poverina… Sono anni che Astrid sta sempre lì, nella sua cameretta rosa, dietro i vetri appannati. Qualcuno le avrebbe visto le stimmate, ma i genitori e i nonni hanno sempre negato una variante mistica del fenomeno.»

«Astrid?»

«È il nome della sua amica. Erano, e sono tuttora, molto legate. È stata da sempre prigioniera di alcune paure. Elvira una notte mi ha confidato che secondo lei l’essere di Astrid era la paura. La sua mente era fatta di paura. L’essere e la mente, attraverso la paura, erano diventati una sola cosa. Riguardo alle stimmate, alcuni medici che seguivano Astrid erano convinti che fossero delle lacerazioni che Astrid si faceva da sola con un tagliacarte. Tutti hanno creduto ai medici, tranne Elvira.»

Sentii dei rumori, all’interno della casa. Non mi mossi, in attesa che Arianna li percepisse. I rumori smisero e Arianna rimase ferma dov’era. Il silenzio della stanza del camino, con il mormorio delle fiamme e gli echi sparsi della tempesta di neve, potevano diventare soffocanti.

«La tempesta è diventata più forte» mi disse, guardando fuori.

«È bellissimo da qui. Il vostro paese nel bianco è incantevole. Sembra qualcosa di lontano, di inesistente…»

«Soprattutto per te, Ottavio. Avevi sempre mille impegni. Si possono contare sulle dita le domeniche che hai passato qui. Elvira non ha mai voluto fartelo pesare, ma quando eravamo a letto, prima di addormentarci, si avvicinava e mi diceva che quel giorno di festa finito lo avrebbe voluto trascorrere con te, e che non sarebbe ritornato mai più.»

«In inverno le strade erano pericolose, e poi non le conoscevo bene.»

«Le avresti imparate se avessi voluto, Ottavio. C’era qualcos’altro che ti allontanava da qui. I tuoi amici più cari: Livia, Filippo, Riccardo, Ivonne, soprattutto lei. Dovresti riconoscerlo.»

«Non è così. I miei amici non c’entrano niente. Erano le strade cattive.»

«Elvira mi ha raccontato di quante domeniche ti sei organizzato con loro lasciandola da sola.»

«È capitato, ma solo di rado. E poi Elvira era stata invitata, ma si è sempre rifiutata.»

«Perché non aveva nessuno che passasse a prenderla. Tu non potevi mai.»

«Non era facile arrivare fin quassù, e poi scendere di nuovo e raggiungere Ivonne, Livia e i loro amici, lo sai. Lo stesso al ritorno, col buio, lungo strade che non conoscevo. Quando sono ghiacciate mi diventa difficile controllare la macchina.»

«Una mattina, era primavera, vi eravate già organizzati. Solo all’ultimo momento le hai detto che non riuscivi più a raggiungerla. Elvira non te lo ha fatto mai pesare, come quel sabato di febbraio, in cui è stata esclusa. Vi aveva chiesto di organizzarvi da queste parti, a Sant’Andrea, a Conza o a Calitri, ma tu, a quanto  pare, non sei riuscito mai a convincerli.»

«A febbraio raggiungere posti del genere, insomma, parlo per loro, naturalmente, li deprimeva. Dicevano di preferire luoghi più radiosi, luoghi di mare. A febbraio si decisero per il Cilento, dove Livia e Ivonne volevano fermare una casa per le vacanze. E poi… a quanto ricordo, Elvira non aveva grande simpatia per Ivonne, nemmeno per Livia. Preferiva Lucrezia, a entrambe, pur avendola vista solo due volte, essendo la persona che frequentavo di meno e che sentivo più lontana, rispetto alle altre» le dissi.

«Non hai mai pensato che Elvira non avesse piacere che tu continuassi a frequentarle?»

«Non posso stare nella sua testa, così come Elvira non può stare nella mia. Conoscendola, se qualcosa o qualcuno l’avesse disturbata, me ne avrebbe parlato. L’unico problema era la distanza del vostro paese dai luoghi dei nostri incontri e l’impraticabilità delle strade.»

«Comunque non importa. E poi non sono io a dover pretendere spiegazioni» mi disse, chiedendomi permesso, lasciando con un passo stanco la sala del camino.

Serie: Il buco nero


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Discussioni

  1. Ciao Luigi! Anche stavolta la tua penna è riuscita a comporre una realtà enigmatica, sospesa come su una rivelazione che non vuole arrivare. Questo dialogo apparentemente criptico, forse il frutto di un’incomunicabilità instaurata fra due esistenze ermetiche, è carico di aspettative e di indizi sussurrati, sottesi.

    1. Ciao, Nicholas. Sono davvero contento che le risonanze del racconto ti abbiano raggiunto. Hai colto perfettamente lo strato parallelo e la corrente pulsante che è sottesa negli scambi tra i personaggi, nelle loro resistenze, esitazioni, alterazioni, improvvisi cambi di rotta, sovvertimenti. È tutto ancora imploso, all’interno di un potenziale segreto agli stessi personaggi, che da un momento all’altro potrebbe condizionare per sempre la loro esistenza. Un numero primo il cui coefficiente non è ancora definito, ma aleggia nell’aria, in attesa di posarsi per sempre, e in modo irreversibile, sul suo vertice. È in questa zona di limbo, frapposta tra i tornanti e i riverberi di un luogo dell’anima, isolato dal mondo, che si articola la storia. Grazie della tua visita e delle tue impressioni.

  2. Hai saputo districarti egregiamente nel caos dei pensieri dei due protagonisti. Ciascuno naviga seguendo la scia che gli è più congeniale. Punti d’incontro sono una stanza e l’immagine di Elvira. Considerazioni che si accavallano e, ancora una volta, l’incapacità di ascoltarsi e le risposte che altro non sono che cambi repentini di argomento. Seguire il filo è difficile, complicato e proprio per questo, interessante e affascinante. Molto bravo.

    1. Sì, Cristiana, è molto vero quello che scrivi; in effetti il labirinto è proprio insito nel linguaggio. È tutta lì la sede geologica del mistero. Tutte le diramazioni emozionali sono assorbite e restituite da questa tensione spiralica verso l’ignoto, e verso l’attrazione costante per la sua voce sospesa, dove sto costruendo una stratificazione di costrutti che accompagnano i personaggi nella loro dirittura. La lingua è dentro e fuori la storia. In alcuni momenti ha una funzione ipnotica, come lo è stato l’ultimo tratto di Elvira prima della sua scomparsa, che è andata a svanire lungo le tenebre della frana come la musica in un film. E tutto l’approccio linguistico, nei confronti degli elementi della narrazione, ha quasi una funzione extradiegetica, se ci fai caso; sembra parte estranea del microcosmo, trascendente eppure intimamente vincolata ai suoi equilibri e ai suoi conflitti. La chiave è molto più sonora e metalinguistica, che tradizionalmente sintattica, forse. Ecco dove risiede il labirinto. A presto e ancora grazie.

  3. Elvira e la sua famiglia sono dei personaggi indecifrabili, è vero, però Ottavio è una persona incredibilmente egoista.
    Questo alone di mistero lascia col desiderio di andare sempre avanti nella lettura.

    1. Ciao, Giuseppe. È vero: il fattore dell’indecifrabilità, mano a mano che il tessuto narrativo si dilata, sta diventando una nota dominante, che permea in buona parte anche la famiglia di Elvira, la scomparsa, come se ciascuno di loro fosse attraversato dallo stesso mistero di quell’assenza. Il personaggio di Ottavio, su cui si incentrano le energie e le contraddizioni degli accadimenti, è già partito malissimo: non ha detto a nessuno della scomparsa di Elvira, decidendo di tenere tutto dentro, come se fosse qualcosa che riguardasse soltanto la loro relazione e quindi la sua persona. Hai visto molto bene. Da questo primo passaggio si evince un comportamento che porta a considerarlo in un’aura negativa, poco promettente, insomma. Vedremo negli sviluppi come configurerà la sua gestione del mistero e dei suoi affluenti e anche la sua resistenza in quel territorio isolato, tempestato di neve. Grazie del tuo commento e auguri di buon Natale.

  4. Mi piace e mi attira molto l’alone di mistero che riesci a creare. Il particolare delle pile, il ragazzo conosciuto al telefono, le incomprensioni con Elvira…sembrano tutti messi linper caso, invece sono pezzi di un puzzle costruito in modo sapiente…

    1. @Dea Ti ringrazio. Tutti i particolari che hai colto, hanno il loro senso, la loro funzione, anche se non sempre manifesta, all’interno del mosaico, ma relegata intimamente al mistero. A volte sono tasselli opachi, poco definiti; in altri casi sono più calzanti con il disegno meglio formato, ma nessuno di loro, almeno al momento, è casuale ma misteriosamente – è il caso di dirlo –, causale.

  5. Spunta un elemento nuovo: l’incomprensione all’interno della coppia. Elvira e tutta la sua famiglia sono personaggi misteriosi.

    1. Sì, mi ritrovo con la tua visione. Il mistero permea e condiziona ogni nuovo elemento, come se lungo questa progressione rappresenti l’unica certezza. Grazie della tua attenzione.