Goodbye Stranger 

Serie: Uomini


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La finestra è ancora aperta. La tenda si muove lenta. L’aria di mare entra e porta con sé l’odore di sale, ferro e gasolio. Dal porto sale un tintinnio irregolare: barche che si urtano piano, come bicchieri che brindano da soli. Sul tavolo, una tazza di caffè ormai freddo e il suo maglione grigio. Nessun biglietto. Nessuna parola. Solo quell’oggetto lasciato lì, un fermo immagine che vale più di una lettera.

Ieri sera, sul divano, fissava la finestra. Gli occhi oltre la strada, oltre le luci, oltre me. Era come guardare qualcuno già a bordo di un piroscafo che sta per partire. Ha parlato poco, frasi brevi che mi sembravano strofe di una canzone che conosco: nessun rancore, nessuna colpa, solo la certezza che le nostre strade non corrono più vicine.

«Certe partenze non si annunciano,» ha detto con un mezzo sorriso, quello che precede una porta che si chiude. «Succedono e basta.»

Non le ho chiesto dove sarebbe andata. Non l’ho mai fatto. Lei è sempre stata un volto di passaggio, un volto che non promette ritorni.

Scendo in strada. La città è ancora assonnata, sospesa tra il vuoto dell’alba e il primo rombo dei motorini. Davanti alla stazione un treno parte verso nord. Me la immagino al finestrino abbassato con i capelli mossi dal vento. Lo sguardo che per un attimo si volta indietro, giusto il tempo di ricordarsi che qui c’era qualcuno che le ha camminato accanto per un tratto.

La prima volta che l’ho vista pioveva. Portava un impermeabile verde e un ombrello rosso che non apriva. La pioggia le scendeva sui capelli, ma lei rideva. Una risata lunga, tagliente, libera. Il tipo di risata che non resta, che scappa appena può.

Abbiamo vissuto così: pizze fredde sul pavimento, albe sui tetti, chilometri senza mappa. Mai un «per sempre». Forse è per questo che non c’è rabbia. Solo un vuoto che sa di strada libera.

Entro in un bar vicino al porto. Il bancone è appiccicoso di zucchero e caffè. Un gruppo di marinai parla a voce bassa, una donna ride forte. In quella risata sento un’eco, come se per un secondo fosse lei, tornata a dirmi che il viaggio continua, solo altrove.

Goodbye stranger.

Non ti devo niente, non mi devi niente. Ma so che ogni volta che vedrò un tramonto violento, arancio e viola, penserò a quella sera d’estate: lei in piedi sulla spiaggia, il vestito bagnato dalle onde, che mi dice: «Quando ripartirò, voglio che mi ricordi così. Non con un addio, ma con un colore.»

Esco. Il sole ora picchia sui muri bianchi. Metto il maglione nello zaino. L’aria sa di pane caldo. Cammino senza meta. Non c’è bisogno di sapere dove sto andando. Forse è proprio questo che voleva dire: che certe strade si prendono da soli, con la stessa leggerezza con cui si lascia una tazza di caffè su un tavolo, una finestra aperta e un sorriso a metà in una mattina qualunque.

https://www.youtube.com/watch?v=9aykOwwRf-Q

Serie: Uomini


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Discussioni

  1. Mi sembra un racconto che parla più di libertà che di perdita. Poetico e malinconico, sa restituire la forza di un addio senza drammi, fatto di immagini che restano più delle parole. Mi ritrovo molto nel tuo modo di scrivere e di trasmettere le emozioni: quella leggerezza che lascia un vuoto dolceamaro mi è vicina. Complimenti sinceri, hai scritto qualcosa che resta dentro.

  2. Bellissimo di colori e profumi, Rocco, e il bar sul porto che è sempre il luogo migliore dove depositare i propri ricordi. Se mi posso permettere, ma è una osservazione legata a mie paranoie anti/angliste, io avrei preferito “Arrivederci, straniera”.