
GUARDARSI DENTRO
Serie: FECALOMA
- Episodio 1: GUARDARSI DENTRO
STAGIONE 1
Quel pomeriggio andai al pronto soccorso.
Prevenire è meglio che curare, m’ero detto.
Pessima idea: erano più di sei ore che stavo seduto su quella sedia di plastica dura, col fianco sinistro irrigidito, come se un cazzo di fossile mi stesse crescendo dentro.
Due settimane senza andare di corpo: il mio intestino era diventato una prigione, un deposito tossico di magma rappreso e impenetrabile.
L’urgentista arrivò con passo deciso.
Alta, capelli legati con freddezza professionale, occhi allenati a vedere solo corpi. Non più persone.
Un’automa, una macchina biologica che si occupava di organi malfunzionanti, tubi, numeri, diagnosi.
Mi scrutò come se fossi solo un caso clinico, uno spazio vuoto da riempire di sigle.
«Non possiamo ricoverarla finché non le verrà una colica.»
La sua bocca quasi non si aprì, e immaginai quanto dovesse essere alieno il suo modo di fare l’amore, se anche in quei casi avesse agito con un simile distacco.
Chissà chi era il fenomeno capace di riportare i suoi istinti a livelli umani.
O forse il suo corpo era, per lei, solo un altro strumento?
Un oggetto da studiare e usare, ma mai da sentire veramente.
«E se esplodo prima? Se questa roba mi scoppia dentro?»
Lei scosse la testa, con un sorriso che non arrivò agli occhi: «È certamente un fecaloma. Un tappo dovuto all’antibiotico. La cura è semplice ma poco piacevole: marmellata di tamarindo, qualche clistere, un guanto, olio d’oliva… e santa pazienza. Deve infilare un “ditino”, anche due, e cercare di estrarre a mano.»
Quelle parole mi risucchiarono in un vortice di umiliazione.
Il mio corpo, la mia dignità, la mia stessa identità, ridotti a un gesto ridicolo e crudele.
Poi concluse con un ironico: «Buona serata.»
Io pensai che sarei rimasto lì ore, a parlare di fecalomi, solo per respirare un po’ della sua sicurezza.
Sono qui, dottoressa, seduto in questa sala asfissiante, piena di gente. Ha sentito? Mi ha detto che devo infilare un “ditino” per estrarre la mia stessa merda. Sa, a volte voi medici sembrate tante macchinette, robot che hanno smesso di credere che sotto la carne ci siano anche anime. Mi chiedo se persino lei, fuori da quel camice, si senta solo un corpo da gestire. Se anche il sesso non le risulti altro che una diversa forma di automazione.
***
Il sabato terminò grigio, con un cielo senza luce e una sensazione di attesa che pesava come un macigno sul mio addome. Rincasai con un vasetto di marmellata di tamarindo e una lista mentale di cose da fare: olio d’oliva, clistere, guanto, water, santa pazienza, e poi, il “ditino”.
Quel diminutivo risuonava come uno spregio, un marchio indelebile. Epperò era l’unica via, aveva detto l’urgentista.
La camera sembrava rimpicciolita, più angusta delle mie viscere.
Il fastidio al fianco non cessava, come se dentro s’agitasse un’aderenza che lentamente pietrificava.
Due settimane, tre, senza riuscire a svuotarmi. Ogni tentativo fallito mi faceva sentire in ostaggio delle mie stesse interiora.
Tamburellavo con le dita sul ventre, come in cerca di una botola, ascoltando impaziente ogni rumore, ogni accenno di fuga stroncato sul nascere. Pensavo al tumore che poteva crescere silenzioso, un ospite ingordo, un intruso che si nutriva di me mentre io m’illudevo di vivere.
No, quella paralisi improvvisa non era colpa dell’antibiotico. Lo sentivo.
Oltretutto, mi credevo incapace di eseguire la manovra consigliatami al pronto soccorso, come se ficcare le mani in quella parte di me comportasse la fine di un’era, la resa definitiva.
Eppure, sedetti comunque sul water.
La luce del bagno era fredda e crudele, rivelava ogni impurità della pelle, ogni solco nascosto.
Mi guardai le mani mentre le immergevo nell’olio d’oliva: un liquido denso e aureo che presto sarebbe mutato nel più infimo dei lubrificanti.
Il dito scivolò, lento, in un calore umido, affondò tra le mucose calde, morbide e delicate. Sentii subito il turgore: emorroidi gonfie come caramelle gommose, che pulsavano e vibravano di un dolore sottile, umiliante.
Un odore alieno m’investì, un misto di glicerolo, metallo e terra bagnata.
Qualcosa di vivo e malato.
Era l’odore del mio interno, il mio corpo purgato che si rifiutava di cedere, che si chiudeva come un mollusco ferito, mentre un secondo “ditino” lo esplorava.
Frugavo avidamente, alla ricerca di quel tappo, immenso e granitico, laggiù in fondo.
Mi sentivo capiente. Sapevo che, se avessi continuato, sarei riuscito a infilare anche tre dita. Ma intanto non trovavo nulla. Solo una resistenza densa, un muro invisibile. Le falangi entravano e uscivano, illibate, collezionando frammenti di umiliazione e di fallimento, di un uomo che aveva perso il controllo sulla propria materia più intima.
Il rumore era qualcosa di devastante.
Mi chiedevo se stessi scavando nel mio corpo alla ricerca di un fantasma, di una concrezione degli incubi più profondi.
Passarono secoli. Tre ore di una monotonia agghiacciante, di una solitudine più greve di qualunque altra mai sperimentata.
A tratti, la nausea mi assaliva, un groppo stretto in gola che mi faceva tremare. Avevo paura, una paura che cresceva lenta, inesorabile.
Non c’era niente. Solo un vuoto pieno di me stesso, una cavità che sembrava amplificare all’infinito la mia impotenza. Ogni tentativo fallito era un piccolo colpo al cuore, un segno che qualcosa non andava, che dentro poteva annidarsi un male molto peggiore del semplice fecaloma.
«Il cancro», pensai. «Una massa viva, che mi mangia dall’interno.»
L’idea mi ossessionava.
Pensai ai processi invisibili operanti in me: alla proliferazione silenziosa di cellule malate, alla digestione che si bloccava, al sangue che s’intossicava. Ogni cosa nel corpo era in costante lotta tra ordine e caos, tra vita e morte.
E io stavo lì, spettatore impotente di un dramma invisibile.
Alla fine, la frustrazione fu totale.
Ero come un elastico rotto, le dita insanguinate, il cuore che martellava.
Nulla s’era liberato, se non un devastante senso di vuoto pieno.
Ho passato ore a scavare nel buco nero che è diventato il mio intestino, dottoressa. Niente. Penso sempre al cancro.
Come può un corpo trascurare la propria morte? Come fa un tumore a crescere senza farsi sentire? Il corpo è una macchina perfetta, proprio perché ignora sé stessa. Ogni cellula che muore è un piccolo funerale incelebrato. Un primo passo verso la decomposizione degli organi, la contaminazione del sangue… la morte che striscia sottopelle.
Serie: FECALOMA
- Episodio 1: GUARDARSI DENTRO
Ehilà, vedo che non sono più l’unico a scrivere una serie su dottori insensibili, timori di tumori, invasioni anali. Il tuo ha un taglio molto diverso, esistenzialista. Un episodio in cui morte, umiliazione e cancro fanno a gara a spartirsi la scena nei pensieri del protagonista. Ma sono incuriosito dai tag che hai messo.
Ciao Marco! Grazie mille per la lettura!🙏🏻 Mi ero ripromesso di scrivere una storia dagli sviluppi kafkiani proprio a causa di un’esperienza personale di questo tipo. Tutta la parentesi medica è successa davvero (anche la simpatica storia del “ditino”). Ora volevo pubblicare anche il finale, dato che è dalle 3 del pomeriggio che sto provando a caricare, ma oggi la sezione Bozze è un calvario😆
“Sentii subito il turgore: emorroidi gonfie come caramelle gommose, che pulsavano e vibravano di un dolore sottile, umiliante.”
Nonostante la poesia di questa immagine, che suggerisce immagini dalle sensazioni estremamente contrastanti, continuerò a mangiare caramelle gommose.
🤣 scene idilliache e gommose 😆