Hemingway e la teoria dell’iceberg

Articolo a cura di Marco Mastrorilli, tratto da LibriCK – La rivista degli scrittori n. 1.

Il mondo della letteratura nel corso dei secoli ha sempre avuto grandi innovatori capaci di cambiare l’inerzia stilistica dei tempi e in questo scenario il ‘900 è stata un’epoca che ha determinato molti cambiamenti in termini letterari. 

Proprio durante il secolo scorso un autore si è distinto per un approccio metodologico particolare capace di rivoluzionare il design stilistico della scrittura, stiamo parlando di Ernest Hemingway. 

Il romanziere americano si è messo in luce per un precetto narrativo che affonda le radici sull’essenzialità. 

La capacità creativa di esprimere un percorso narrativo con pochi elementi descrittivi molto curati e con un uso sapiente dei dialoghi nei quali lo scrittore americano era un maestro, lo hanno portato ad essere un modello di scrittura esemplare.

Leggendo le opere di Hemingway, scoprirete che la sua prosa è inconfondibile poiché si basa sull’impiego di frasi brevi, nel ricorso agli aggettivi che sono ridotti all’essenziale e ad un armonica ritmica che si concentra sull’azione dei personaggi.

Queste sono le basi della teoria dell’iceberg che ha, da sempre, contraddistinto le opere di Hemingway. 

Nel 1932, dopo due grandissimi successi editoriali di pubblico e critica come Fiesta e Addio alle armi, Ernest Hemingway esce nelle librerie con un libro diverso, un saggio su un tema molto controverso: la corrida.

Il libro, Morte nel Pomeriggio, è accolto tiepidamente dalla critica ma contiene tra le sue pagine una definizione dell’autore della teoria dell’iceberg: 

Di questo principio metodologico, Hemingway scriveva: “Se un prosatore sa bene di cosa sta scrivendo, può omettere le cose che sa, e il lettore, se lo scrittore scrive con abbastanza verità, può avere la sensazione di esse con la stessa forza che se lo scrittore le avesse descritte. Il movimento dignitoso di un iceberg è dovuto al fatto che soltanto un ottavo della sua mole sporge dall’acqua. Uno scrittore che omette le cose perché non le conosce, non fa che lasciare dei vuoti nel suo scritto.” 

La “teoria dell’iceberg” è un precetto di scrittura attribuito all’autore americano e divenuto molto popolare.

Ancora oggi è insegnata nelle scuole di scrittura creativa perché può aiutare l’approccio alla stesura di una storia nei giovani autori. Ma il principio dell’iceberg si plasmò grazie al percorso formativo di Hemingway. 

Quando era giovane, il romanziere americano dedicò tempo alla sua formazione scrivendo come inviato resoconti dall’Europa per il Toronto star e altre testate. 

Negli anni ’20 Hemingway viveva a Parigi, conobbe molti personaggi autorevoli che oggi sono famosi come Picasso, Fitzgerald, Pound, Joyce, Sylvia Beach e la sua  libreria ma fu soprattutto Gertrude Stein autrice e poetessa statunitense che corroborò l’evoluzione stilistica di Hemingway. 

Pensate che della poesia, Stein diceva: “La poesia non è altro che usare perdere rifiutare e compiacere e tradire e carezzare i sostantivi. Ecco quello che fa la poesia, quello che la poesia deve fare non importa di quale tipo di poesia si tratti. E di poesia ce n’è di moltissimi tipi”.

Non meno importante nella fase iniziale della sua carriera fu l’amicizia con Scott Fitzgerald che lo consigliò molto e addirittura lo presentò al suo editore Charles Scribner e all’editor Perkins, che diverrà un grande amico.

Queste esperienze furono basilari per forgiare la teoria dell’iceberg che possiamo definire una tecnica di omissione e pulitura di un testo da tutto quello che può essere ritenuto, dall’autore, superfluo.

Dal punto di vista scientifico, l’iceberg riesce a galleggiare grazie alla bassa densità del ghiaccio puro inferiore a quella dell’acqua di mare  e si stima che circa l’85% del volume di un iceberg rimanga sommerso. Questa immagine rappresenta l’approccio alla scrittura, almeno secondo le linee guida suggerite da Hemingway

Limando, tagliando tutto quelle che non serve, elidendo il superfluo lo scrittore mostra solo una parte di quello che vuole comunicare, lasciando tutto il resto sommerso e nascosto. 

Uno spazio maggiore è concesso alla mente del lettore, che può riflettere e immaginare.

Vi riporto un esempio eclatante di come l’iceberg possa rendere una narrazione indimenticabile. 

L’esempio iconico per eccellenza, quasi sfuggente proprio per la potentissima punta dell’iceberg che incide nello storytelling è il racconto Colline come elefanti bianchi.

Quel racconto parte da un’esperienza reale vissuta da Hemingway che la raccontò in un’intervista al giornalista Plimpton. 

Il romanziere americano spiegò al giornalista come nacque questo racconto: “A Prunier, dov’ero andato a mangiare le ostriche prima di pranzo, ho incontrato una ragazza che sapevo aveva abortito. Mi sono avvicinato e abbiamo cominciato a parlare, certo non di quello che era successo, ma poi, tornando, pensavo alla sua storia, e quando sono arrivato a casa ho saltato il pranzo e ho lavorato tutto il pomeriggio”.

Di quell’incontro francese a Prunier tra Hemingway e la ragazza, in Colline come elefanti bianchi, resta l’ispirazione.  

A una attenta analisi il racconto stesso, sembra fatto di pochi elementi come accade, con meno potenza evocativa, anche nei racconti minimalisti di Raymond Carver.  

Colline come elefanti bianchi è un racconto basato solo sul dialogo in una coppia di fidanzati: un florilegio di emozioni e pensieri espressi solo con una conversazione.

La tensione, il contrasto emotivo con il quale l’uomo cerca di indurre la compagna ad abortire, conferiscono all’intero dialogo una straordinaria potenza.

La genialità narrativa si palesa al lettore nella capacità di Hemingway di centrare il focus dialettico sull’aborto, senza mai citare questa parola.

Hemingway, nel racconto, l’aborto lo definisce attraverso il protagonista maschile  soltanto “un’operazione semplicissima”, ma Jig, la ragazza che dovrebbe subire l’aborto, è avviluppata tra angoscia e dubbi.

Il paesaggio nel quale si muovono i due protagonisti non è altro che un ineffabile gioco di simbolismi. 

Le descrizioni sono ridotte ai minimi termini, le forme dell’ambiente mantengono solamente le linee essenziali, che comunque bastano a Jig per esprimere l’eterea e poetica analogia tra gli elefanti bianchi e le colline circostanti.

Ma è proprio nella metrica di questa essenzialità del racconto che si innesta “il seme in cui dorme – l’albero gigantesco”, come scrisse testualmente lo scrittore argentino Julio Cortázar che definiva Hemingway uno scrittore “bravissimo”. 

Il distacco emozionale tra i due protagonisti del racconto, l’incomprensione latente, il diverso modo di vivere la paura per quell’operazione (che all’epoca era molto più insidiosa rispetto ai nostri giorni) sono potenti stoccate emotive per il lettore. 

Questi stati d’animo generano la dimensione delle molteplici interazioni del rapporto dei due protagonisti che si sviluppa in una stazione ferroviaria davanti ai boccali di birra o di un rinfrescante Anis del toro. 

Nelle sue narrazioni predomina la sequenza “dialogo-azione-dialogo-azione”, Hemingway usando il principio dell’iceberg riesce a trasmettere i caratteri del personaggio più complesso o dello scenario più articolato mostrando un’abilità geniale nella caratterizzazione dei protagonisti e dei luoghi.

Hemingway deve molto all’Iceberg’s Theory, ma la ricerca di questa semplicità era molto faticosa dal punto di vista della ricerca delle parole calibrate e giuste che anche grazie al simbolismo riuscivano a riportare quella potenza evocativa che lo ha reso unico ed inimitabile. 

Marco Mastrorilli

Video Hemingway e la teoria dell’iceberg del canale YouTube Passione Hemingway

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Discussioni

  1. Innanzitutto grazie per questo contributo.
    Per quanto riguarda lo stile di Hemingway, mi permetto di segnalare un film di Woody Allen, a mio parere un grande film: Midnight in Paris, dove il protagonista incontra una serie di personaggi di altra epoca (scrittori, fotografi, artisti) tra cui lo scrittore che è descritto in modo fantastico.
    Per il resto, d’accordo con Tiziano e Paolo: tecnica decisamente difficile, da provare solo con argomenti che si conoscono molto bene.

  2. Grazie, dare una rinfrescata a certi argomenti è sempre utile. Se posso esprimere un parere, credo quella dell’iceberg sia una lezione da affrontare con cautela, per gradi… perché trovo verissimo che elidere l’inutile possa condurre a un netto miglioramento del testo, tuttavia richiede una “sapienza” che inizialmente non si possiede. Il rischio che si corre, questo è ciò che ho sperimentato, è di mutilare, concentrati in modo integralista sulla frase a effetto, ciò che invece è importante per far sì che chi ci legge non si perda. Infine, penso che la seconda parte dell’insegnamento, non meno importante a mio giudizio, sia che è fondamentale raccontare di ciò che si conosce, meglio se in modo diretto, certamente, ma anche attraverso lo studio, la documentazione, le letture e così via. Intendo dire che quando ci imbarchiamo nella una narrazione di qualcosa che non ci è familiare, è necessario un investimento cospicuo di tempo perché si possano acquisire gli elementi che in qualche modo lo riportino nelle nostre corde. Grazie ancora, Paolo

    1. Ciao Paolo, sono d’accordo, non è una tecnica semplice, richiede abilità. Sulla seconda parte del tuo commento, e volendolo affrontare da un’altra prospettiva, quando si parla di ciò che non si conosce, il lettore in qualche modo lo percepisce, capta anche subliminalmente alcune incertezze, alcune esitazioni nel linguaggio. Viceversa, chi parla (anche poco) di un fatto che conosce nei minimi dettagli, riesce, sia pure in poche parole e omettendo molte cose, a trasmettere al lettore questo suo bagaglio di informazioni e a collocarsi su un piano di narrazione affidabile e autorevole.