Hurt – Ombre su Alcatraz
Serie: Viaggi in Controtempo
- Episodio 1: Shine on – Tracce di luce sul Bryce Canyon
- Episodio 2: Hurt – Ombre su Alcatraz
STAGIONE 1
La vedo in lontananza mentre il battello avanza tra le onde agitate della Baia di San Francisco. L’aria sa di sale, gasolio e città: un miscuglio sporco che resta addosso. Il sole rimbalza sull’acqua in riflessi irregolari, quasi fuori posto rispetto all’ombra scura dell’isola che si avvicina. Alcatraz. Anche solo il nome mette a disagio. Spoglia, cupa, sorge dall’acqua come un blocco di cemento piantato nel nulla. Intorno, il mare è minaccioso, gelido. Penso alle correnti, a chi ha tentato la fuga sfidando questo inferno liquido.
Il brusio dei turisti si mescola al rumore del motore. Forse non sanno, o fingono di non sapere. Io no. C’è qualcosa nell’aria: rispetto, inquietudine, un velo di tristezza. Il battello attracca. Un brivido mi scorre lungo la schiena. Il vecchio molo, il cartello scolorito: “United States Penitentiary”. Vernice scrostata, legno consumato, memoria che non dimentica. Mi chiedo se ho fatto bene a venire. Questo era un luogo di sofferenza, ora è solo un’attrazione turistica. Gente che scatta foto, guide che raccontano storie di gangster famosi. Chi l’avrebbe mai detto che Alcatraz sarebbe diventata questo.
Scendo e mi confondo tra i turisti. Parlano, ridono, chiacchierano. Mi infastidisce. Vorrei silenzio. Le mura qui hanno assorbito urla e disperazione. Il cemento stesso racconta storie di chi fu rinchiuso e dimenticato. Mi scosto dal gruppo. L’isola è piccola ma pesa come un macigno. Il vento fischia tra strutture abbandonate, corrose dal sale e dal tempo. Le torrette, vuote da anni, sembrano ancora vigilare. La prigione, enorme e grigia, incastrata nella roccia, è un relitto di un’altra epoca. Fredda. Inamovibile.
Mi avvicino. Un nodo allo stomaco. Appena varco la soglia, l’aria cambia: è densa, stantia, pesante. Il sole non entra davvero, si incastra tra le sbarre, lasciando una luce malata. I corridoi sono stretti, le celle allineate come gabbie. Cammino piano. Le mie scarpe scricchiolano sul pavimento logoro. Ogni passo è un’eco.
Poi, nella mia testa, parte Johnny Cash. La sua voce ruvida, consumata, si infila nei pensieri come un chiodo arrugginito. ”What have I become, my sweetest friend?” Perfetto. Maledettamente perfetto per questo posto.
Mi fermo davanti a una cella. Un letto di ferro, un lavandino incrostato, un cesso. Una scatola di cemento. Anni interi passati qui dentro. Sfioro una sbarra arrugginita. Fredda, ruvida. Chissà quanti l’hanno stretta non per curiosità, ma per disperazione.
Chiudo gli occhi. La cella non è più vuota. Vedo un uomo seduto sul letto, la testa tra le mani. Respira a fatica. Indossa la divisa a righe. È giovane? Forse. O forse l’età qui non conta. Un clangore metallico rompe il silenzio. Una porta si apre nel corridoio. Passi lenti, chiavi che tintinnano. Una guardia passa, senza sguardo. Un altro detenuto stringe le sbarre. Dita ossute, volto scavato, occhi persi tra rabbia e rassegnazione. Forse prega, forse urla.
Qualcuno geme, forse nel sonno, forse nella follia. La notte qui è sempre la stessa. Troppo lunga. Troppo buia. Troppo fottuta. Apro gli occhi. La cella è vuota. Nessun prigioniero. Solo turisti che bisbigliano. Ma il passato è ancora qui. Incastrato tra queste mura.
Resto fermo, la mano ancora sulla sbarra. Il ferro è ruvido, consumato dal tempo e dalle dita di chissà quanti dannati. Chiudo di nuovo gli occhi. L’immagine ritorna. L’uomo sul letto. La guardia. Il corridoio in penombra. Un altro detenuto bisbiglia nel vuoto. Forse a Dio. Forse a se stesso.
E Johnny Cash continua. ”I hurt myself today, to see if I still feel…” Non riesco a liberarmene. È dentro di me. È sempre stata qui, come se Alcatraz l’avesse sempre posseduta.
Quanti qui dentro hanno cercato di sentire qualcosa. Anche solo dolore. Quanti hanno contato i giorni, le ore, le ferite. Aggrappati a un ultimo pezzo di sé, prima di svuotarsi del tutto.
La fottuta canzone non smette. Non ho bisogno di cuffie. È già dentro di me. Fisso la cella vuota. Eppure piena. Di presenze, di storie, di fantasmi.
Esco. Il corridoio è deserto. I turisti si sono spostati. Le loro voci sono solo rumore. Io sento ancora il silenzio. Quello vero. Quello che pesa. Il silenzio di chi ha urlato fino a consumarsi la gola, senza risposta. Di chi ha capito che non serviva più a niente e ha smesso di parlare.
Mi giro un’ultima volta verso la cella. Un guscio vuoto, forse. Ma so che non è così. I fantasmi sono lì. Nell’aria, nelle pareti, nel cemento. E forse, resteranno per sempre. Intrappolati, proprio come lo erano in vita.
Serie: Viaggi in Controtempo
- Episodio 1: Shine on – Tracce di luce sul Bryce Canyon
- Episodio 2: Hurt – Ombre su Alcatraz
“Scendo e mi confondo tra i turisti. Parlano, ridono, chiacchierano. Mi infastidisce. Vorrei silenzio. Le mura qui hanno assorbito urla e disperazione”
mi è piaciuto molto questo passaggio. la leggerezza dei turisti stride, e amplifica l’angoscia e il dolore legati a questo luogo di prigionia.
Grazie per il commento Dea e per aver apprezzato il raconto
MI piace il tuo modo di scrivere, riesco a farmi un’idea di quello che descrivi senza essere mai stata in questi luoghi. Complimenti 👏👏
Grazie per il tuo apprezzamento! Riuscire a trasmettere immagini e sensazioni anche a chi non ha visitato quei luoghi è una grande soddisfazione.
Mi piace il tuo modo tutt’altro che banale di descrivere i luoghi e di andare oltre ciò che appare, ciò che é visibile, immaginando e sentendo, un qualche modo, la presenza di chi ha impregnato anche i muri con la lunga sofferenza della sua detenzione.
Grazie di cuore per le tue parole. Per me descrivere un luogo significa sempre ascoltarne la memoria silenziosa, quella che resiste nei dettagli, nei muri, nei vuoti.
Mi piace molto questo tuo “esercizio”, permettimi di chiamarlo così, di associare ad ogni luogo di questo viaggio tanto fisico quanto interiore un brano che ne esprima le emozioni.
“I focus on the pain, the only thing that’s real”…
Adoro la versione originale dei NIN, ma la cover di Cash, dio mio, è una sequenza di pugni nello stomaco.
La versione dei Nine Inch Nails è un grido di dolore giovanile e alienazione. Reznor aveva solo 29 anni quando l’ha scritta. Quella di Johnny Cash, invece, arriva da un uomo di 70 anni che guarda indietro alla sua vita fatta di alti, bassi, rimorsi e voglia di redenzione. In un certo senso, è proprio la storia della sua vita. Anche se molto diverse, entrambe le versioni raccontano in modo potente e sincero cosa significa soffrire. Grazie per i tuoi commenti!