I pensieri di Arturo

Non so se tutto quello che stiamo vivendo ha un senso. Forse no. Forse siamo noi che cerchiamo un significato perché ci fa paura l’idea che la vita non ne abbia uno. Per anni mi sono convinto che dovevo trovare uno scopo, una direzione, una missione. Ma più cercavo, più mi sembrava tutta una presa per il cuo. Ci ripetono che dobbiamo essere qualcuno, realizzare qualcosa, lasciare un segno. E alla fine? Alla fine ti ritrovi a chiederti se davvero tutto questo serva. E forse la risposta è semplice: non deve servire a niente. Il senso non esiste: siamo noi che glielo attacchiamo addosso come un’etichetta su una bottiglia. E se la chiamavamo in un altro modo? Se la vita l’avessimo chiamata “Fragola”, o “Stupunistcks”, o “Ngò”? Sarebbe cambiato qualcosa? No. Abbiamo costruito un mondo intero su regole inventate da altri: parole, concetti, filosofia, morale, educazione. Tutte cose che qualcuno, prima di noi, ha deciso fossero giuste. E noi giù a crederci. Il problema non è il mondo. Il problema è che non ce ne accorgiamo. Per me essere vivi significa questo: avere uno spazio. E chi entra nel mio spazio deve rispettarlo. Non perché voglio comandare, ma perché è mio. Come io rispetto quello degli altri. Se vuoi vivere in pace con me, bene. Se no, puoi anche andare affan*ulo: c’è spazio abbastanza in questo pianeta. Io non devo adattarmi alla lentezza di chi non vuole vivere, né ai limiti di chi ha paura. La vita è dura per tutti, ma almeno viviamola. Ieri sera mi ha scritto una mia ex. Non ci parlavamo da anni. E quello che mi ha detto mi ha gelato: la ragazza che ho lasciato per lei non c’è più. Sono passati otto anni. E anche se la logica dice che ormai è acqua passata, quando ho letto quella frase mi si è fermato il respiro. La prima parola che mi è entrata in testa è stata: perché l’ho lasciata andare? E sì, parlo di lei, non della persona che mi stava scrivendo. La verità, quella che non mi fa piacere guardare, è questa: con lei ho sbagliato. Non perché ci siamo lasciati: le cose finiscono. Ma perché non ho avuto il coraggio di chiudere quella storia come una persona, non come uno che scappa. L’ho tenuta, poi l’ho lasciata andare senza un vero motivo. E quella storia le è pesata molto più che a me. Non penso di esserne la causa: non sono così importante. Ma non posso nemmeno far finta che non abbia lasciato un segno. Quel messaggio mi ha tolto le scuse. Mi ha tolto le difese. Ed è rimasta solo una frase: potevo fare meglio. Ora lo so. E questa non è colpa: è responsabilità. Non posso cambiare il passato. Ma posso evitare di rifarlo. Sono cresciuto in una famiglia dove non sono stato figlio: sono stato supporto. Mia madre ha perso un figlio prima di me e quel dolore lo ha messo addosso a me. Io non sono nato: sono stato usato per riempire un vuoto. A 13 mesi non ho detto mamma. Ho detto: “Mamma non piange più… fa male a me.” Questo dice tutto. Sono cresciuto per calmare gli altri, non per essere protetto. A cinque anni, mentre mi operavano alle adenoidi, ero io a tranquillizzare mia madre. E quando chiedi a tuo padre come difenderti, e lui ti dice lascia perdere, impari una cosa: subisci. La mia vita non l’ho vissuta: l’ho sopportata. E non sono l’unico. Ce ne sono tanti come me. Solo che stanno zitti. Il mondo non è governato dai forti. È governato dai deboli che hanno paura di essere superati da chi ha abbastanza coraggio per vivere senza permesso. E allora sì, voglio dire una cosa: Smettiamo di vivere per paura. Smettiamo di stare al passo degli ultimi. Smettiamo di accettare un sistema che ci tiene bassi per non creare confronto. Chi ce la fa non è un nemico. È un esempio. Essere vivi non significa evitare il dolore. Significa attraversarlo. In Toscana dicono: “Meglio aver paura che prenderle.” Io dico il contrario: avere paura di prenderle è il modo perfetto per non vivere. Preferisco un mondo di lupi veri, anche incasinati, che un recinto pieno di pecore tranquille convinte che la recinzione sia libertà. E tutto questo, alla fine, si riassume così: Io non vivo per convincere nessuno. Vivo perché non voglio più farmi addomesticare.

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