Il bianco e il nero

Achille lascia la sua anima attaccata al muro portando con sé quello che resta del suo involucro per condurlo verso la finestra del suo ufficio. Non respira. Il corpo immobile, scolpito sullo sfondo della parete; sulla fronte l’incedere lento di una goccia di sudore, lo sguardo offuscato da una strana mistura di adrenalina e paura.
Alle sue spalle rimane l’ampia scrivania in noce scuro, una piccola Svizzera fatta eccezione per una cornice capovolta. Con una fotografia incollata alle dita di una mano, Achille armeggia con l’altra per spalancare la finestra ingaggiando una battaglia con la maniglia arrugginita. Vuole riprendersi l’anima e per farlo deve liberarsi dall’aria viziata che impregna le pareti della sua mente.
La ruggine si sgretola sotto la sua ripetuta pressione, la maniglia cede. Achille offre il viso alla brezza del mattino, ma comprende immediatamente che qualcosa è cambiato.

I suoi occhi stanno perdendo i colori e la familiarità con il mondo. Impotente, rimane aggrappato alla dissolvenza del rosso, tra le immagini che disordinatamente si lanciano alle sue pupille spalancate. Un autocarro imbocca l’intreccio di vialetti sottostanti, Achille esulta perché riesce ad afferrare le didascalie impresse sul rimorchio, però non vede più il bar alla sua sinistra. Per convincersi che il suo sguardo non è ingannato dal sole, sposta l’occhio verso il telefono stampato sull’insegna fissata lì da tempi memorabili, la freccia aggrappata al palo sembra puntare proprio lui.

“Ma perché sta ancora lì!” Achille sente che i suoi pensieri e le immagini che riproducono si muovono su binari scoordinati, e la consapevolezza di ciò lo fa indietreggiare confuso.

Dal corridoio arrivano il rumore dei passi e delle voci dei suoi dipendenti, tra tutti distingue la voce di Amanda.

Amanda, rapita da un dipinto del Goya. L’aveva vissuta “vestida e desnuda” donandole il dedalo della sua inquietudine. Per lei aveva destituito la sua veste d’uomo distaccato e dedito solo ai suoi affari, si era denudato di ogni potere, ponendo lei come reggente del suo cuore, ma sapeva in partenza che un’Amanda la puoi tenere inchiodata al desiderio che brucia nel petto, rinunciare alla speranza di trovare pace oltre la logica di ogni intelletto, ma non potrai mai possedere il diadema che incorona il suo indomito splendore.

Gli occhi di Achille ruotano nuovamente fuori dalla finestra, dentro quella nuova percezione del presente in bianco e in nero e in sovrapposte manipolazioni.

La vespa blu di Amanda è parcheggiata sul ciglio della strada, accanto all’insegna del telefono, con la sua immagine a cavalcioni sul sellino nero, con la proiezione di lui in piedi davanti alla donna con la mano sinistra sollevata e pronta a scagliarsi contro il suo viso. Le figure si muovono rapide nell’immobilità del quadro di cui Achille è, suo malgrado, testimone e testimonial. Un uomo si allontana, la mano sinistra in tasca. Avrebbe voluto gridare “hey fermati, torna da lei” ma dalla gola non riesce a pescare un suono.

Achille stringe le dita per assicurarsi che la foto sia ancora incollata alla sua mano sinistra e poi si volta verso la porta, qualcuno sta entrando, gli parla da un telefono, col filo? Forse quello è il telefono del bar indicato dalla freccia.

Ora sa che deve abbandonare la finestra.

Amanda appena entrata nell’ufficio del presidente, getta il cellulare sul pavimento, si avvicina rapidamente ad Achille. Lui è disteso accanto alla parete della scrivania, ma è troppo buio per capire cosa stia accadendo. Si precipita alla finestra, gira con un colpo secco la moderna maniglia che separa i loro corpi dal mondo e in un attimo aria e luce si spargono per tutto il perimetro della stanza appoggiandosi sugli oggetti e sul corpo supino dell’uomo.

Amanda si lancia sul suo petto. Urla.

Quel grido avrebbe potuto svegliare almeno un paio di mondi, ma gli occhi di Achille sono fermi, fissi sul soffitto bianco, indelebili grovigli del silenzio.

Amanda appoggia le dita sulla mano sinistra del marito serrata a pugno e sente che stringe qualcosa. Lo shock non contempla la riflessione e senza motivo apparente cerca di schiudergli la mano. Dal conflitto di dita le rimane solo un frammento di fotografia. Lei abbassa gli occhi, guarda e il suo corpo rimane immobile, scolpito sullo sfondo della parete.
La stanza dell’ufficio del presidente è già piena di gente, Amanda stringe un pezzo della sua vita tra le dita della mano sinistra e nessuno si accorge che si è allontanata verso la finestra. Il suo scooter blu cobalto è parcheggiato sul ciglio della strada che stride con la vecchia insegna del telefono dalla freccia diretta sempre a ovest, le gallerie di cemento degli stabilimenti si incrociano al cemento delle strette vie che portano all’ufficio di Achille e un uomo sullo sfondo a piccoli passi si allontana con la mano sinistra in tasca.

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