Il Centrotavola

Serie: Legata a Lei


Ci sono legami che non si scelgono, ma che ti abitano come una seconda pelle. Sono fili invisibili che ti tengono in vita e insieme ti consumano, ti costruiscono e ti distruggono nello stesso gesto.

    STAGIONE 1

  • Episodio 1: Il Centrotavola

Con mia madre è sempre stato un equilibrio sottile, un filo teso tra amore e sopravvivenza.

La guardo e sento tutto: la fatica, la rabbia, la paura di non bastare. È come se la sua voce fosse incisa nella mia pelle da sempre, anche quando provo a zittirla dentro di me.

Non serve che urli, perché so già cosa verrà dopo: le parole, i gesti, quel modo di farmi sentire colpevole anche quando respiro.

Eppure la amo. E forse è proprio questo il dolore più grande — continuare ad amarla anche quando mi toglie l’aria.

Da qui parte la mia storia.

Da un centrotavola spostato, da una casa che a volte sembra troppo piccola per contenerci entrambe, e da una figlia che per la prima volta decide di restare ferma, senza più chiedere scusa per come è fatta.

Passo una mattinata buona, finalmente.

La mattina inizia con un incontro con Luna… ci raccontiamo.

A volte rido, a volte mi scopro nuda davanti a lei, senza difese.

È strano trovare qualcuno che ti capisce senza dover spiegare tutto.

Mi riconosco nei suoi silenzi, nei modi in cui cambia espressione quando parla di sé.

Ci somigliamo.

Entrambe con pezzi rotti, ma con la voglia di capire come incastrarli meglio.

C’è il sole che filtra tra gli alberi della villa, il fruscio del vento, il profumo dell’erba appena tagliata che resta nell’aria.

Sento la vita che scorre, finalmente senza rumore.

Una mattina semplice, pulita.

Una boccata d’aria che non ricordavo più come si prende.

Quando ci salutiamo, mi sento leggera.

Una parte di me vorrebbe restare lì, ferma, per paura che quella sensazione svanisca.

Ma salgo in macchina.

Metto in moto.

Quella leggerezza che lentamente si sgretola

“Mo torno a casa, ci sta mamma…”

La frase mi attraversa senza voce.

Già la sento: le domande, i sospiri, il tono che mi punge anche quando non vuole.

Dentro comincia il movimento — pensieri che si accavallano, si spingono, si graffiano.

Resta calma. Non pensarci. Goditi ancora un po’ la mattina.

Ma è tardi. La leggerezza è andata.

Resto aggrappata solo al ricordo di come si stava, anche solo per un’ora, fuori dal solito peso.

L’odore di casa mi accoglie come un promemoria.

Cucina, televisione accesa, la voce di mamma che si muove da una stanza all’altra.

Tutto è al suo posto.

Tranne me.

Appoggio la borsa, mi siedo.

Mangio in silenzio.

Lei parla, io rispondo poco.

Mi scivola addosso tutto — come se avessi la pelle bagnata.

Dentro penso solo: voglio che resti così, tranquillo. Voglio solo pace.

Sorrido, anche se già la mente corre.

Non rovinare questo momento. Non pensare troppo. Respira.

Poi scendo giù.

La casa è più fresca, la luce taglia il pavimento.

Mi piace stare lì, è il mio spazio.

Accendo la TV, metto il caffè.

Per un attimo mi sembra di riprendermi.

Finché sento i passi di mamma sulle scale.

Quel rumore che conosco a memoria, il ritmo che precede il vento.

Mi volto.

La vedo entrare.

Il suo sguardo cade subito lì — sul tavolo.

Sul centrotavola spostato da un lato.

E tutto, dentro, si ferma.

Si avvicina, lo tocca appena.

Lo sposta con due dita, come se non potesse resistere.

«Perché l’hai messo così?»

Sospiro.. penso : “un’altra giustificazione immotivata devo dare”

«Mi piace. È più comodo, e non devo spostarlo ogni volta.»

Lei lo guarda come si guarda una cosa storta che dà fastidio.

Fa un passo. Poi un altro.

Allunga la mano.

«No, mamma. Lascialo lì.»

Silenzio.

Solo il battito nelle orecchie.

Poi la voce le cambia, si fa più tagliente.

«Da quann’è munn è munn, il centrotavola sta al centro!»

La guardo.

E in quell’istante vedo molto più del tavolo.

Vedo la sua storia, le sue regole, il modo in cui ha sempre voluto rimettere tutto dove lei crede giusto.

Anche me.

«Io so diversa ro munn,» dico piano. «E poi… qui ci vivo io. Posso decidere io.»

Lei si irrigidisce.

Il viso le si accende, gli occhi le si fanno piccoli e lucidi.

«Tu a me non mi rispondi così!»

Comincia a urlare.

Parole che non sono nuove, ma ogni volta fanno lo stesso rumore.

Come se il tempo non avesse imparato nulla.

Io resto ferma.

Dentro, il dialogo vero è con me stessa:

Non reagire. Non darle fuoco. Non devi più dimostrare niente.

Lei continua.

«La devi smettere di trattarmi male. Nun si bon, figliò… nun jamm bon»

Respiro.

Non serve difendermi, ma neanche annullarmi.

Un attimo di silenzio, poi riparte.

La me di prima avrebbe cominciato ad urlare ancora più forte di lei…

ho lasciato che sfogasse la sua frustrazione, la guardo, e dentro penso: non è il centrotavola, mamma. È il confine.

Il mio.

Il tuo.

Quello che non sai accettare.

Non urlo, non piango.

Resto solo lì, immobile, con quella calma che non avevo mai avuto.

Sento le mani fredde, ma il cuore calmo.

Come se per la prima volta non dovessi vincere, ma semplicemente esserci.

La sua voce si spegne a poco a poco, come un temporale che non trova più pioggia.

Resta a fissarmi, poi gira lo sguardo altrove.

La sento ancora agitata in casa, che gira, parla da sola, sbatte qualcosa.

Io resto ferma.

Non perché non mi tocchi — ma perché questa volta non voglio tornare indietro.

Mi ripeto dentro come un mantra:

Hai fatto bene. Hai detto solo la verità. Hai difeso il tuo spazio. Non serve urlare.

Lei poi torna, si affaccia sulla porta.

La voce le trema, ma è più bassa.

«Me ne sto andando.»

Mi giro verso di lei.

«Va bene, mamma.»

Solo questo.

Nel frattempo la guardo spostare piano il centrotavola.

Lo rimette al centro, nel suo posto “giusto”.

Io la lascio fare.

Non serve dire niente.

Non è più una guerra.

«Ci sentiamo dopo per la pizza, se vuoi» dice prima di andare.

«Va bene. Come vuoi tu.»

La vedo uscire.

Resto in silenzio.

Guardo quel tavolo, e quella cosa che pochi minuti fa sembrava il campo di battaglia di una vita intera.

Ora è solo un tavolo, e io non mi sento più sconfitta.

Forse ha mollato. Forse è il suo modo di dirmi che ha capito.

O forse no.

Ma non importa.

Sorrido piano.

Mi dico che anche rinunciare può essere un atto d’amore.

Non verso chi hai davanti, ma verso te stessa.

Ti voglio bene, mamma.

Ma voglio bene di più a me.

Resto a guardare il centrotavola.

È lì, al centro, dove lei voleva che fosse.

Io no.

Io resto qui, nel mio spazio, dove finalmente so chi sono.

Respiro.

Serie: Legata a Lei


Avete messo Mi Piace4 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Il tuo è un racconto molto intenso e autentico, scritto con grande sensibilità. Mi è piaciuto perché riesce a raccontare un conflitto familiare profondo con parole semplici ma molto vere. Si sente il peso dell’amore e del dolore insieme, e la protagonista riesce a mostrarsi fragile e forte allo stesso tempo.
    Mi è piaciuto soprattutto il modo in cui piccoli gesti, come spostare un centrotavola, diventano simboli di libertà e di identità. Mi sembra che il testo trasmetta bene la tensione emotiva fra le due donne e nel complesso è un racconto sincero e maturo.

  2. Sei molto brava Luce. Mi piace il tuo stile. Hai personalizzato la voce interiore della protagonista e caratterizzato il rapporto tra madre e figlia in modo credibile e suggestivo. Ottima la forma: frasi brevi, singole, rendono più agevole la lettura.👏👏

  3. Un racconto molto bello e toccante, scritto con grande sensibilità. La scena del centrotavola diventa un simbolo potente del bisogno di affermare sé stessi senza perdere l’amore per l’altro. Si percepisce una forte crescita interiore — mi chiedo, quel processo di “separazione” — in termini psicologici, l’uccisione simbolica della madre — che serve per diventare adulti, è voluto o meno?

  4. Interessante come con un banale centrotavola mostri il difficile e soffocante legame che la protagonista ha con la madre, il modo in cui viene messa al suo posto come fosse un soprammobile.
    Molto bella la parte finale, rinunciare a una discussione è un atto d’amore verso sé stesse e, al contempo, un modo per non chinare la testa.
    Brava Luce!
    L’unico suggerimento è di togliere i trattini prima dei dialoghi, ci sono già le caporali, non ti servono.

  5. Un racconto introspettivo, delicato e poetico, anche se, nel breve dialogo con la madre, si accenda un po’, nei toni materni. Mi ha ricordato il libro di Antonio Franchini “Il fuoco che ti porti dentro”. Ho amato il libro e mi è piaciuto tanto anche questo tuo racconto.