Il Cinese

Serie: Le rose e le rouge


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Rosa, tutta giuliva, mostra il nuovo tatuaggio, appena terminato, alla sua amica Valentina; mentre Carletto approfitta per godersi lo spettacolo del prosperoso seno, traboccante dal balconcino. Pagando un alto prezzo, in umiliazione e insulti senza sconti da parte di Valentina.

Una mattina di dicembre, Rosa, imbacuccata nella sua giacca a vento, era passata al chiosco per salutare Valentina. Le aveva proposto di andare al bar del “Cinese”, poco distante, per un caffè.

«Non posso spostarmi, lo sai.»

«Facciamo presto: un espresso col turbo, al volo.»

«Vai tu a prenderli, li beviamo qui al chiosco, insieme.»

«Si freddano. Ci sono cinque o sei gradi al massimo, il tempo di fare tre metri e sono ghiacciati.»

Valentina era indecisa: non poteva chiudere il chiosco, mollare tutto e andarsene a bighellonare; se qualcuno fosse andato a lamentarsi, avrebbe perso quel lavoro che poco la entusiasmava, ma ancor meno poteva rinunciarvi.

In quel momento si era avvicinato un ragazzo, il custode del cimitero.

«Ciao Gio’, puoi stare un attimo qui al chiosco? Io e Valentina vorremmo andare a prendere un caffè.»

«Siete matte? Non posso farlo, se mi scoprono, rischio il licenziamento in tronco, per abbandono dei morti sepolti» aveva risposto Piergiorgio, in tono semiserio. «E poi cosa do da mangiare a mio figlio, i petali delle rose appassite che non riuscite a vendere?»

«Buono il risotto alle rose con lo spumante. Vuoi la ricetta?» aveva risposto Rosa con una delle sue fragorose risate.

«Tutt’al più posso fare la ronda, avanti e indietro. Un’occhiata qui e una dentro, per evitare che scappi qualcuno dei morti sepolti. Se vengono clienti, posso dire che Valentina è svenuta un attimo e…»

In quell’istante era arrivata anche Gemma, l’amica di Valentina, proprietaria dell’erboristeria La Senna.

«Ciao Gemma, ti va un caffè?»

«Noi stiamo andando dal Cinese.»

«Sì, volentieri, ne ho proprio bisogno.»

Le tre donne erano entrate al bar e si erano sedute al tavolino vicino al bancone. Lui era sbucato dal retro e aveva controllato la lavastoviglie senza dire mezza parola, come se le tre clienti fossero state invisibili.

Un ragazzo ─ suo figlio ─ aveva preso le ordinazioni, mentre il padre asciugava i bicchieri.

«Ce ne andremo col mal di testa ─ aveva detto Gemma, osservando l’uomo, impassibile dietro il bancone. ─ L’ultima volta che sono venuta l’ho messo alla prova. Era di pomeriggio, suo figlio non c’era. Sono rimasta seduta aspettando che venisse a chiedermi cosa volessi. Poi si è avvicinato ed è rimasto impalato davanti a me per non so quanto tempo. Un silenzio imbarazzante.»

«E alla fine?» aveva chiesto Rosa, rivolgendosi a Gemma.

«Alla fine ho ceduto io e lui sempre muto come uno che, sotto tortura, gli hanno strappato la lingua. Ero l’unica cliente: soltanto noi due. Ci fosse stato almeno un sottofondo musicale. E invece: un silenzio tombale, perciò mi sono arresa. Gli  ho chiesto un’aranciata. La sua presenza muta rendeva l’aria più pesante del fumo tossico di Macchiareddu. Ho lasciato il bicchiere a metà, i soldi sul tavolino, e me ne sono andata.»

Il Cinese in realtà aveva origini napoletane ed era vissuto per molti anni a Gera, in Germania, prima di incontrare la sua futura moglie e trasferirsi da lei, a Caralis, a pochi chilometri dal paese dove aveva rilevato il bar del cognato, fratello della moglie.

Il suo vero nome era Pasquale, gli avevano affibbiato quel soprannome per via della statura, del colorito simile al crisantemo selvatico sbiadito e per la forma degli occhi, che lo facevano sembrare un po’ orientale.

Conosceva bene il tedesco e quando i clienti lo facevano innervosire parlava sottovoce, nella lingua che gli altri non avrebbero capito.

Un giorno erano entrati quattro ragazzi sconosciuti. Erano rimasti in piedi davanti al bancone e avevano chiesto una birra cruda artigianale di produzione locale. Lui aveva proposto diverse birre crude locali, ma nessuna di quelle li aveva convinti. Si erano messi a protestare, facendo insinuazioni sulla scarsa fornitura e qualità del locale. A quel punto il Cinese aveva mandato il figlio al supermercato per comprare le birre Bajò, tanto pretese da quei clienti un po’ troppo esigenti.

Nell’attesa, mentre asciugava i bicchieri, gli era scappata una parolaccia in tedesco. Uno dei quattro aveva sentito e capito. Dopo aver tirato fuori un tesserino, aveva chiesto le chiavi del bagno e senza esibire alcuna richiesta ufficiale e nessun tipo di autorizzazione aveva iniziato l’ispezione. Nell’antibagno c’era un secchio con uno straccio logoro e annerito dall’uso. L’uomo era tornato indietro minacciando la chiusura del locale e una multa esorbitante per condizioni igieniche non adeguate alla norma.

Il colorito giallognolo del Cinese era sbiancato come il panno che teneva in mano. Si era scusato, aveva supplicato di non rovinarlo. Sua moglie non stava bene, non poteva lavorare; aveva l’affitto da pagare e una rata fissa per l’acquisto del bar. Li aveva convinti ad accomodarsi al tavolino, aveva portato una ciotola di noccioline, un’altra di patatine e infine anche le due confezioni di birra Bajò appena comprate. Dopo aver consumato erano usciti cantando “No non stare in pena/nel dubbio mena/”, il ritornello di una canzone degli Zeta Zero Alfa, portandosi dietro anche le ultime bottiglie rimaste, senza pagare un euro.

Da quel giorno il “Cinese” aveva smesso di pronunciare parole in tedesco sottovoce e anche col pensiero. Aveva ripreso a pensare nella sua lingua madre, in napoletano. Lavorava impassibile e muto come un pesce, senza rivolgere la parola a nessuno.

Dopo che le tre donne si erano accomodate, rivolgendosi al ragazzo avevano chiesto un succo di frutta, tre paste e due caffè. Il Cinese aveva preparato il vassoio con i piattini, i cucchiaini, le bustine dello zucchero e del dolcificante, pensando a loro. Ste femmene prima se stanno a magna’ ‘o babbà e poi o ccafè dietetico pe no scofenà.

Quando Rosa si era avvicinata alla cassa per pagare aveva preso al volo anche tre biglietti gratta e vinci, uno per ciascuna. Uscendo dal bar avevano salutato in coro, accentuando il tono di voce. Il Cinese, senza voltare lo sguardo, continuando ad asciugare il ripiano del bancone, aveva risposto tacendo, con un cenno del capo.

Valentina aveva accelerato il passo. Al chiosco c’erano già tre persone in fila. 

Rosa aveva infilato i gratta e vinci nel cassetto e si era affrettata a dare una mano per servire le clienti; Gemma invece, aveva preso al volo un mazzo di fiori dalle confezioni già pronte, ed era entrata in cimitero.

Serie: Le rose e le rouge


Avete messo Mi Piace4 apprezzamentiPubblicato in Fantasy

Discussioni

  1. Mi è piaciuto molto questo nuovo personaggio. In poche righe ci hai presentato un mondo nuovo, una storia dentro la storia. Un capitolo un poco diverso, mi è sembrato, rispetto ai precedente. Il mondo femminile e il legame tra donne è sempre presente, ho notato che hai introdotto elementi nuovi che vanno ad arricchire la serie. Mi hai dato l’idea di un pezzo di “passaggio”, non sono ben certa. vado e leggermi l’episodio successivo.

    1. Ciao Dea, posso svelarti – resti tra noi -😉 che questo episodio é necessario per seminare qualche indizio su ció che accadrà in seguito, forse nell’ultimo episodio di questa stagione.
      Grazie Dea.
      P.S. Conosci la poesia “A Diosa”, che in lingua sarda/spagnola significa Dea?

  2. Ma allora non solo i cinesi nei bar delle mie zone si comportano così! 😹
    Per quanto mi sia dispiaciuto per la disavventura di Pasquale (che concordo con altri utenti, è stato un abuso di potere), non ho potuto fare a meno di sorridere per le sue caratteristiche a dir poco peculiari. Perché è impossibile non immaginarlo parlare e pensare in napoletano.
    Anche questo capitolo mi ha strappato un sorriso all’insegna della leggerezza. 😸

    1. Grazie Mary, il “Cinese” non é del tutto inventato. Le poche volte che sono entrata nel suo bar a prendere una caffé, non l’ho mai sentito parlare. E credevo fosse davvero Cinese. Sul gruppo di clienti prepotenti ci vorrei tornare più avanti, per chiarire meglio la loro identità.

  3. “Ste femmene prima se stanno a magna’ ‘o babbà e poi o ccafè dietetico pe no scofenà.”
    Ma quanto è vero? Il Cinese ha assolutamente ragione ed esprime nella sua splendida lingua madre una verità assoluta. Io sono intollerante al lattosio e ho pure la gastrite, pertanto non posso permettermi niente di tutto questo e sono sempre la noiosa che chiede una spremuta d’arancia. Però mi piace fare compagnia a qualche amica e mi diverto davvero a osservare questo contrasto: caffè assolutamente amaro (che lo zucchero non fa più figo, pare…) e briosciona gigante piena zeppa della qualunque. Ma si sa, noi donne siamo fatte così e soprattutto siamo belle così. Continua a piacermi tanto questa tua serie così fresca, ben scritta, lineare e accattivante allo stesso tempo. Ogni personaggio nuovo diventa un arricchimento ed è bella l’immagine di tutti che ruotano attorno alle nostre amiche.

    1. Il “Cinese”, personaggio in po’ finto e un po’ vero, appare muto come un pesce scorfano, poco cordiale con i clienti e pieno di aculei. La sua riflessione verso le donne intente a godersi la colazione, potrebbe confermare una carenza di amabilità. La benevolenza induce alla comprensione, l’ostilitá si manifesta spesso con l’avversione.
      Per qualcuno le tre donne possono essere gioia per gli occhi; per lui, invece, sono come un bersaglio in cui trovare il punto critico. Un bersaglio verso il quale riversare, col pensiero, il suo malcontento.
      Grazie Cristiana, sto imparando a conoscere meglio i soggetti di questa storia, anche attraverso i vostri spunti.

    1. Grazie Kenji, mi hai dato lo spunto per andare a verificare, la differenza – minima – tra meriggio e pomeriggio. Un termine, il primo, un po’ desueto, che risuona come una nota poetica.

    1. Grazie Giancarlo, il paragone con il complesso arazzo composto da fili di lana intrecciati, é un complimento molto lusinghiero. Un’arte antica, anche qui in Sardegna, a cui molte donne che possedevamo un telaio si dedicavano con pazienza e con passione. Un’arte che veniva attribuita anche alle janas, le figure leggendarie, un po’ donne e un po’ fate, della narrazione popolare e letteraria. Le janas si nascondevano nelle grotte, potevano uscire solo nelle ore più buie della notte, per non essere viste dagli uomini. Di giorno, con le loro mani di fata, si dedicavano soprattutto alla tessitura, con filamenti preziosi.
      Vorrei trovare anch’io, di tanto in tanto, qualche gugliata di lana buona o anche di cotone o seta. Non so se e quanto il lavoro finito, di intreccio, potrebbe diventare pregiato, ma la ricerca continua, anche all’ interno di questo bel laboratorio.