
Il giardino delle badanti
Androne, portone, marciapiede. Uno sguardo automatico verso l’ultimo piano, camera in affitto dell’ultima ora. Senza ascensore. Costa poco.
Il cielo è grigio, teso tra i comignoli. Avrei voluto scrivere ‘giornata autunnale’ ma l’autunno dei miei ricordi è colorato e caldo, dalla luce alle foglie rosse che mulinavano negli angoli.
Cammino come se dovessi sfogarmi camminando. A volte cerco di ritornare sui miei passi senza riuscirci. Mi sto perdendo e mi piace.
Mi si para davanti di colpo, girato l’angolo.
Un anfiteatro di alti palazzi. In mezzo, incastonato, una specie giardino cinto da un muretto di pietra.
Strano silenzio. Ci dovrebbero essere bambini, madri con le carrozzine, pensionati…
Spingo un cancello di ferro. Un parco abbandonato con cumuli di foglie che quasi sommergono panchine arrugginite. Crisantemi in fiore che straripano dalle aiuole e invadono i viali. Al centro, una fontana di cemento con un putto senza braccia dal volto consunto.
Sto per andarmene con un brivido di disagio e la vedo.
Una ragazza giovane seduta compunta su una panchina, le mani sulle ginocchia. Immobile. Si volta e mi sorride. È come se mi stesse aspettando. Con un gesto lento spazza le foglie accanto a sé.
Sono imbarazzato. Alla mia età le ragazze non m’invitano accanto. Mi guardo attorno. Mi avvicino e mi siedo.
“Come sono cresciuti gli alberi.” dice senza voltarsi, e la voce la rende ancora più giovane.
“Può darsi, non sono mai stato qui prima.”
“Lo so.”
“Perché?”
“Altrimenti non saresti entrato.”
Silenzio.
“E tutto abbandonato…” dico banalmente cercando di sorriderle.
“Era un luogo bellissimo.”
“Dove siamo?”
“Il Giardino delle Badanti.”
Ancora silenzio, poi riprende.
“Molto tempo fa questa era una zona residenziale alla periferia della città. Case di lusso, qualche villa assediata dai primi palazzi. C’erano famiglie. E c’erano bambini, ma non era un quartiere pensato per loro. Non era una città pensata per loro.
L’hanno disegnata degli architetti a tavolino. Le strade ad anello, le zone commerciali, i viali a raggiera per guidare veloci verso le fabbriche e tornare con il buio. Hanno dimenticato le piazze, i parchi, i giardini, i cortili.
Ascolto. Cose risapute, e comunque diffido dei fondamentalisti anti progresso. Ne hanno fatte centinaia di città come questa. Con tutti i vantaggi dello spazio, dell’efficienza.
Ma non lo dico. Non mi metto a litigare con una ragazza.
Lei si volta verso di me. È pallida ma non malata. È come se non avesse mai visto il sole. Non è bella ma ha uno sguardo intelligente, aggrotta la fronte come se faticasse a ricordare.
“La gente lavorava,” riprende lei giocherellando con una foglia “Quasi tutti avevano bambinaie per curare i figli durante durante il giorno e badanti per gli anziani. Quei genitori ingombranti che sognano la campagna e vorrebbero portare una sedia fuori, di fronte alla porta d’entrata, e guardare il mondo che passa. Adagio. Il loro mondo.
Le donne uscivano la mattina per accompagnarli al sole, per mano, per braccio, in carrozzina, ma non c’era un luogo dove portarli.
Finché qualcuno inventò questo spazio, il prato abbandonato di una villa scomparsa, cinto da un muro di pietra, chiuso da un cancello arrugginito.
Venivano qui a sedersi sull’erba. I bambini giocavano, le tate e le badanti parlavano del paese, delle famiglie lasciate per venire in città a cercare un lavoro qualunque. Le mura dei palazzi risuonavano delle loro voci e delle risa dei bimbi come il cinguettio di mille uccelli.
Poi accadde un fatto piccolissimo ma meraviglioso…”
La ragazza rovescia la testa ridendo. Mi sembra di sentire nel suo riso quelle voci e quelle risa.
“C’era una ragazza che lavorava in una famiglia molto ricca. Quando sua madre morì, le diedero il permesso di tenere la sorellina Isael con sé, in attesa di una sistemazione.
La portava al Prato.
I padroni della sorella maggiore avevano una terrazza in cima al palazzo. Grandi vasi pieni di piante. Ma nessuno ci andava mai. Le piante soffrivano, stentate e chine.
Così un giorno Isael ha un’idea: ne prende qualcuna, le mette in un sacchetto e le porta qui. Poi le pianta in cerchio come un’aiuola.
La sorella si arrabbia moltissimo! Mi licenzieranno! Ma nessuno se ne accorge.
Così la bambina ne prende altre. Dopo qualche settimana fioriscono. Ed è bellissimo.
E allora succede. Giorno dopo giorno giovani tate e anziani badanti iniziano a portare piantine e semi. A volte tornano dal loro paese e arrivano qui con sacchetti pieni di virgulti e radici.
I bambini, per gioco, raccolgono i sassi e disegnano le aiuole.
Si sparge la voce. Iniziano a chiamarlo il Giardino delle Badanti. Forse più per beffa che per affetto, ma il nome rimane. Alcuni volevano chiuderlo ma prevalse la ragione. Un signore che voleva essere eletto segretario, regala, con grande fanfara, la fontana, il capo quartiere trova delle panchine in un deposito…
Isael crebbe e iniziò a lavorare come aveva fatto sua sorella.
Il Prato era ormai diventato un piccolo parco. Qui c’era vita. Una vita prorompente e vivace. I bambini crescevano come le piante che avevano visto seminare o piantare. I palazzi stessi attorno sembravano d’un tratto colorati. Li chiamavano ‘le nostre montagne’.
La ragazza si arrestò di colpo mordendosi il labbro
“Scusa, ti annoio. È una storia che mi piace raccontare.”
“No, è bellssimo! Io…”
La ragazza si fece seria fissandomi negli occhi.
“Perché sei triste?”
Guardo la fontana, in silenzio. Quel putto inutile, senza braccia.
E rispondo dicendo la cosa più stupida che avessi potuto dire. La verità.
“Perché ho paura, paura del tempo che passa. Ho paura di aver sprecato la mia vita. Senza appello, senza speranza.”
Taccio. Per quale assurda ragione mi sto confidando con una sconosciuta? Abbasso il mento sul petto.
“O forse non è questo. Mi hanno lasciato, capisci? Prima gli amici, poi lei. Se ne sono andati. Li vedi distesi attraverso un vetro con la pelle di cera, e pensi a tutto quello che volevi dire. Ho ancora il suo numero nella rubrica. Sento il suo profumo nell’aria.
La ragazza si alza, impassibile.
“Mi spiace, non sono brava a dare consigli. Posso ascoltarti e percepire la tua angoscia, ma non posso dire nulla che ti aiuti.”
“Me l’hai chiesto!”
“È vero. Colleziono modi di essere triste. Ora devo andare. Scusa. Io devo sempre andare.”
Fa più freddo, mi scuoto con un brivido. Rimango immobile a guardarla scomparire oltre l’erba alta e i cespugli.
È anziano, con una giacca lisa, un cappello blu con una banda dorata. Scosta le foglie con il bastone. Mi saluta.
“Il Giardino delle Badanti.” dice verso di me con un sorriso sdentato.
“Lo so, me l’hanno raccontato.”
“Ah, certo!” risponde ammiccando.
“Ma cosa è successo? Perché…”
Il vecchio estrae delle cartine e si arrotola una sigaretta.
“L’ha creato Isael questo giardino, era come se fosse suo. Qui c’era tutto quello che la vita non le aveva offerto. Il colore, la pace, la serenità. In questo luogo non era la serva dei suoi padroni, era la regina del giardino. Isael viveva con lo sguardo rivolto all’interno. Era gentile ma schiva, generosa ma distratta. Non aveva bisogno di nessuno, appagata dal nulla.
Ma lui non lo capiva, non poteva capirlo. Infatuato, la voleva per sé, la seguiva di nascosto, l’assillava.
Lui era un estraneo qui. Quando girava tra gli alberi, cupo, irato, sospettoso, era come se spirasse un vento freddo. A volte faceva roteare un coltello sull’indice, come si fa al mio paese.
Isael lo rifiutava e lo temeva. Il magico equilibrio di solidarietà e serenità era infranto.
Un giorno lei l’affrontò. Lui sembrò aver rinunciato ma tornò una notte a calpestare i fiori, a gettare terra nella fontana e a rovesciare le panchine.”
Il vecchio mi porse una cartina e la busta del tabacco, Scossi la testa.
“Una mattina d’autunno la trovarono. Due bambini iniziarono a urlare.”
Il vecchio indica la fontana.
“Molti genitori non vollero più che i figli venissero qui. Le ragazze non ce la facevano, passavano accanto al cancello e non ce la facevano.
Non si seppe mai cos’era successo anche se tutti erano certi del colpevole. Lui non fu più trovato.
Qui ci sarà una piazza, credo. Ne ho sentito parlare.”
Il vecchio si alza a fatica, toccandosi la tesa del cappello.
“Devo chiudere il cancello ora. L’accompagno”
Sul marciapiede mi volto, gli sorrido. Afferra le sbarre con le mani nodose.
“Chiudo e apro questo cancello da tanti anni anche se nessuno entra più qui. Non faccio altro. Non ho mai fatto altro. Forse non so fare altro. Non è un gran lavoro, ma se non lo chiudo io rimane aperto. E non è bene.”
Fa qualche passo poi si ferma voltandosi. Si toglie il cappello spolverandolo con la manica.
“Isael è come una bambina. La deve raccontare la sua storia.”
Si allontana adagio e dietro di lui danzano brevi turbini di foglie gialle e rosse.
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Ho amato tantissimo questo racconto, che si muove come una danza in punto di piedi. Il tempo scorre circolare come accade nella narrativa americana che si perde fra le paludi del Caribe. I colori sono diversi e lo è anche lo spirito, tuttavia sono riuscita a percepirne il calore. La figura di Isael ci fa innamorare, così viva e passionale, nonostante tutto. Bellissimo anche il contrasto fra giovinezza e maturità, la sensazione che ci siamo lasciati sfuggire il nostro tempo dalle mani. Importante, per me, anche la descrizione iniziale del girovagare “a caso” in una città. È così che solitamente faccio io quando desidero conoscerne ogni angolo. Bravissimo Valentino, credo, parere certamente opinabile, che questo sia il tuo miglior racconto, in attesa di leggere i successivi. Mi riprometto di farlo al più presto.
Il tuo commento mi fa molto piacere anche perché ho letto alcuni tuoi lavori e vi trovo uno spessore e una competenza veramente interessanti. Non solo sono testi scorrevoli e interessanti, ma vi si sente una profonda conoscenza dei luoghi, della gente e delle circostanze.
Grazie Valentino. Cerco sempre di pescare da dentro e da fuori. Anzi, mi riempio del “fuori”. Buona scrittura
Veramente bello questo tuo racconto. E` stato come entrare in un sogno, in un luogo incantato delle favole, per poi sfiorare il dramma della vita reale, attuale. La frase “Non aveva bisogno di nessuno, appagata dal nulla.” me la copio. Prima o poi ne faro` un ingrandimento per un poster.
Ciao Valentino, aspetto il tuo prossimo racconto.
Grazie. Ho appena letto un episodio del tuo racconto. Bello! Molto piacevole e scorrevole.
Bellissimo racconto! Mi è piaciuta sia la storia, sia il modo con cui padroneggi le parole. C’è un’unica cosa che mi stona un po’ (ma è un gusto personale): la ragazza e il vecchio hanno lo stesso modo di esprimersi della voce narrante, e questo secondo me li appiattisce sullo sfondo del racconto. Se posso permettermi un consiglio, o uno spunto, la sfida potrebbe essere dare ai due personaggi che incontra il protagonista una voce propria, personale e dunque inconfondibile.
Complimenti e buon proseguimento!
Commento molto intelligente e appropriato. Grazie, lo terrò presente
Molto bello, Valentino. Fa venire voglia di andarci con gli attrezzi, iniziare a sistemare la terra, pintare nuove piantine, sperare che qualcuno venga a sistemare le panchine, togliere la ruggine. Belli e preziosi, questi spazi nelle città. E la cosa meravigliosa è che una volta fatti le persone spesso se ne appropriano, danno loro vita.
Grazie. Comunque per me l’elemento più importante non è il giardino, ma Isael, spirito, fantasma, o presenza… tutti i racconti qui pubblicati recentemente hanno come filo conduttore un incontro con una presenza non naturale.