
Il lavoro di un monatto
Ovunque c’era morte. Le campane suonavano lugubri e i sentieri erano più definiti dal continuo passare dei carretti pieni di cadaveri che altro. Jan distinse i solchi lasciati dalle ruote, erano profondi e i carretti ci passavano e ci ripassavano.
Erano tempi cupi. La gente restava chiusa in casa se non per fare le processioni, ma poi dopo ogni processione il numero dei contagiati si decuplicava.
Jan scosse la testa e si chiuse nel mantello.
Con lui c’erano dei colleghi. Erano tutti avanzi di galera, con i volti segnati dalla malattia da cui erano guariti mentre gli occhi avevano visto di tutto.
Jan si unì a loro.
Al momento quel manipolo di monatti doveva entrare in un palazzo.
«Non c’è nessuno qua». Era un servitore.
«Ma tu sì che ci sei. Dobbiamo vedere se ci sono contagiati».
«Ho detto che…».
Jan lo prese a pugni. Lo spiraglio della porta si allargò ed entrarono in quel palazzo. Era un posto da principi.
I monatti dilagarono come locuste e qualcuno ne approfittò per depredare le ricchezze di quel luogo.
Jan scosse la testa di nuovo. Aveva già visto abbastanza. In una camera trovò un moribondo. «Be’, vecchio mio, dubito che ce la farai». Jan se lo caricò in spalla.
I colleghi portavano altri ammalati. Uomini, donne, bambini. Alcuni erano i servitori, altri gli abitanti di quel palazzo. «Nessuno ce la farà. Portiamoli al lazzaretto» disse uno.
«Questi sono già schiattati» segnalò un altro.
«Allora finiranno nelle fosse comuni. O al rogo».
«Ma che ce ne importa! Guardate quanto oro». Il collega di Jan gioì, mise in mostra dei soprammobili.
Nel palazzo rimase quel servitore a piangere disperato, invece tutti i moribondi e i morti furono caricati sullo stesso carretto. Il cavallo avvizzito lo trascinò via.
Dopo il sentiero con i due solchi c’era una fossa comune. I monatti scaricarono i corpi dentro la fossa senza badare a chi respirava e chi no mentre poco distante bruciava un rogo di corpi ridotti a tizzoni ardenti.
Jan pensò che era meglio andare, ma i colleghi si soffermavano più su quel che avevano preso nell’ultima razzia. «Meno male che muoiono tanti ricchi» ridevano. «Sennò, come potremmo avere tutta questa roba».
Jan vide un ragazzo che osservava quelle scene. «Tu chi sei?».
«Mi chiamo Pieter da Breda e sono…».
«Non mi interessa. Pussa via che non c’è nulla da guardare. Vattene o pure tu ti contagi».
Si era messo a biascicare un qualcosa che era un pittore, ma Jan lo lasciò perdere.
Avete messo Mi Piace1 apprezzamentoPubblicato in Narrativa
Ciao Kenji. Bel racconto, purtroppo oserei dire “attuale”. L’ho letto incrociando le dita
Ciao Micol! Grazie, grazie mille. Sono contento che ti sia piaciuto!
“«Mi chiamo Pieter da Breda e sono…».”
Di tanto in tanto metti qualche riferimento che fa intuire la tua passione per la pittura
“«Meno male che muoiono tanti ricchi» ridevano.”
La morte non guarda in faccia nessuno
ciao kenji, il racconto è inquietante se paragonato al nostro periodo, ma va bene così.
bel lavoro
Mi spiace, non era mia intenzione fare un collegamento con l’epidemia in corso. E’ che semplicemente vivendo isolato non risento più di tanto di questa storia… ti assicuro che è una coincidenza, che non l’ho scritto con malizia.
si lo so, non era una critica, solo un pensiero che in un momento come questo il racconto ha ancora più forza.
Ah, meno male 🙂 Pensavo ti fossi infastidito
In questo periodo ci voleva un bel racconto sulla pandemia.
Hai ragione, ma credimi, è stato casuale… non ci ho pensato al collegamento con la pandemia… Grazie per la tua lettura!