Il matrimonio

Serie: Dove giace il mio cuore


Se il racconto Ligea di Edgar Allan Poe venisse raccontato dalla seconda moglie Rowena?

Mi vidi.

No, la vidi.

Il mio corpo esamine che giaceva senza vita sul letto nuziale.

Ero bella, pensai, sebbene ogni cosa avesse perso la luce donata dalla vita, dall’anima raggiante.

Il volto fisso verso il soffitto, a guardare un punto morto.

Sembrava guardassi verso l’altissimo, che cercassi di raggiungere l’estasi, con la bocca semi aperta e rossa, rossa del mio stesso sangue.

Il silenzio regnava sovrano, mi cullava nella mia dipartita, mentre macchie rossastre continuavano a tingere la mia pelle, le lenzuola su cui giacevo e la bianca camicia da notte.

Sembrava che il mio sangue mi decorasse, decorasse come piccoli gioielli luminosi, in contrasto con qualcosa di latteo, marmoreo, come il mio petto, lasciato scoperto e con quei segni sotto gli occhi di chi avrebbe solo voluto guardare, o avesse avuto il coraggio.

Dall’alto, quel che rimaneva di me, l’ultimo barlume prima del nulla, contemplava quella visione.

Avevo compassione per me, per la mia vita, per le lacrime che ancora rigavano il mio viso senza vita, ma ormai non ero più donna.

Ero una reliquia.

Un sacrificio.

Un’offerta sacrificale per un amore che non mi era mai appartenuto.

Lei non si sarebbe fermata.

Io ero stata solo il suo antipasto.

Il suo primo sorso.

IL MATRIMONIO

Io sono la seconda, quella che giunge tardi quando all’inferno il banchetto è già apparecchiato, che indossa un abito da sposa senza sapere di indossare un sudario.

Il giorno delle mie nozze ero così felice. La luce colpiva la mia pelle, mi confortava, faceva apparire tutto così perfetto, così magico.

Il mio cuore risuonava al ritmo delle campane, le mie guance si coloravano dello stesso colore delle rose del bouquet, mentre percorrevo la navata.

Conoscevo poco quell’uomo, ma i suoi modi, i suoi occhi, mi avevano rapito.

Immaginavo già un futuro roseo, con il ventre rigonfio e tante risate.

Nulla di più diverso dalla realtà.

Gli feci le mie promesse con il cuore in gola e le lacrime pronte a sgorgare e uscì da quella chiesa come la donna più felice del mondo.

Avevo fede in lui, in noi, in quello che sarebbe fiorito.

Non sapevo che mi stavo dirigendo al mio sepolcro.

La casa ci accolse austera, alta, annerita, soffocata da tende pesanti e muri pregni d’umidità.

Il silenzio serpeggiava ovunque, ti entrava nelle vene come un veleno.

Ogni cosa appariva immobile, eppure in ascolto.

Fin da subito fu chiaro.

I suoi sorrisi radi, le notti spesso passate sola e poi quelle in cui l’oppio gli faceva sussurrare il suo nome, al mio orecchio, mentre mi prendeva e faceva di me donna.

Il mio cuore si spezzava ogni volta.

Il mio corpo lo accoglieva, lo possedeva, ma la sua anima era con lei.

Ligeia.

Quel nome era scolpito in quella casa, inciso nei mobili, sui vetri, negli specchi.

Mormorato tra gemiti, sogni e spasmi, la chiamava ogni notte, come se chiamasse la morte per nome.

Una sera, con gli occhi semi aperti, il petto che si alzava e abbassava per riprendere fiato disse; «Ligeia aveva occhi in grado di consumarti», mentre il sonno piano piano si impadroniva di lui continuò, «e mani che non tremavano mai.»

Tacqui.

Mi alzai svestita in quella camera, in quella tomba che stavo condividendo con lui, e mi guardai allo specchio.

Così com’ero, nuda, pallida, dalle forme generose, biondissima.

Posai il mio stesso sguardo nei miei occhi: non avevo mai visto occhi più tristi.

Non sapevo chi fosse quella donna, come fosse morta, ma dopotutto non lo era del tutto.

Era lì, in ogni cosa, in ogni ombra, in ogni cigolio, in ogni istante in cui lui chiudeva gli occhi.

La camera da letto era il suo tempio.

Tende spesse, talmente spesse da soffocare il giorno. Odore di cera bruciata, di fiato stantio, di qualcosa che marciva ma non si decomponeva del tutto.

Alcune volte mi chiesi, se non fossi io a emanare quel tremendo odore.

Io cercavo di parlargli, di mostrare interesse.

Portavo tisane, sorrisi, carezze, lettere.

Mi sorrideva, ma non vedeva me, perché lo sentivo piangere per lei.

Non voleva me, ma io lo amavo con la rabbia dei condannati, mentre mi consumavo.

Serie: Dove giace il mio cuore


Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. L’incipit è intrigante, il punto di vista della voce narratrice cattura. Concordo con Mariano sul fatto che l’esercizio che hai intrapreso, mutuando una trama ben nota, è davvero difficile, ma pure coraggioso e quindi stimola interesse. Grazie per la lettura

  2. Amo Poe, è il mio autore preferito. Ligeia è uno di quei racconti che mi hanno fatto scoprire la potenza del suo stile e la profondità del suo universo oscuro. Quello che stai provando a fare è ambizioso, e lo seguirò con curiosità.