
Il palo
Siamo ancorati al palo della luce, ci scommetto. In questo tramonto che sembra aurora e porpora di mare, eppure eravamo in alto a veleggiare tra le nuvole. Ti ho vista, sai, dare le spalle alla vita, librarti tra milioni di particole vaporose, sbattere le ali al vento e salire, salire. Io lì ad inseguire, annaspare sulla tua scia, ma poi insieme siamo tornati a terra, lottando contro la corrente ascensionale. E tu, per prima, l’hai visto il palo della luce. Ci scommetto, era l’unica salvezza che ti sei assicurata dopo un giro di trecentosessanta. E m’hai trattenuto per la giacca. Che era buffo, ma quella forza centrifuga combatteva le nostre resistenze. Che a momenti ti scappavo, e le tue mani riacciuffavano i lembi delle tasche, i soldini cascanti, rotolare lungo la curvatura del pianeta. E poi le braccia, che a quel punto anch’io ancoravo al palo. Ci scommetto, avresti preferito stare lassù, tra progetti astrali di cosmonauti impudenti, impegnati in transeunti mondi universali di concetti astrusi e buchi neri a riflettere sull’esistenza, sulle mille possibilità del viaggio. Ma che dico, milioni di miliardi di limitate speranze, sempre lì ad un passo dalle tue prese. Perciò, meglio quel palo. Ci scommetto, almeno ci protegge, ci trattiene, ci fa luce. E poi, non vedi che bella la luce fioca? Si proietta tra l’asfalto, i palazzi, e l’odore dei caffè appena sfornati, di fragranze che i sensi sono fatti di voglie e acido gastrico che consuma e soddisfa altri sembianti, altre romanze. Mentre le mani, le nostre mani, corrono felici sulla materica dimensione delle cose. Ma non muoverti, stai ferma, ci scommetto, le corse degli altri non possono frenare le nostre pulsioni. Lascia perdere, non confondere la lana con il setoso, costoso, infingardo foulard. Che classe, però. Te l’avevo regalato a Natale, e che figura sul tuo collo esile e bianco. Ti dona quel tocco à la française che ti amo. Dio, quanto ti amo. Ci scommetto, per te non è lo stesso. Tu, sempre avanti di un passo, sempre più catapultata verso il destino di questi umani che camminano sul mondo. Il lavoro, la mia (tua) vita, la musica, la mia (tua) vita, il ballo, la mia (tua) vita, il sushi, la tua (solo la tua) vita, le amiche, la mia (anche queste solo la tua) vita. Io, boh, che ce ne frega, qui ancorato a questo palo che a volte confondo col tuo corpo, e tanto basta, questo colma le tue mancanze. Ci scommetto, intanto il mondo scivola, rotola via, e scorrono i filari, le distese, le praterie incomprese, i seminativi incolti di memorie trascurate. Vedere gli anni sterrati da aratri arrugginiti, i figli crescere che tu sei altra cosa, le delusioni prendere coscienza, i padroni sfruttare le carte scribacchiate di sangue, gli schiavi tollerare supplizi che non fanno più male, i potenti deglutire il dolce morso del maiale, gli angeli decollare tra le sponde senza meta, le vetuste danzatrici dimorare tra gli alberi nei boschi sotto il noce intenti a rimestare storie misteriose di ianare, che pure loro ci credono e si fanno male e tramutano il fascino muliebre, ungendosi con pozioni di erbe medicamentose in fumo di vento dentro le fessure, nei chiavistelli, oltre le fascine di salice, in quei paesini sperduti tra le montagne dove le creature hanno paura e gli adulti accendono i fuochi alla sera. Ci scommetto, sebbene non siamo soli, sì è vero, le auto sfrecciano di lato, sfuggono le città, i viadotti, le rotte esotiche degli aeroplani, le svolte senza uscita, gli incroci per l’infinito, i guardrail ammaccati dai sensi di colpa, gli oleandri bagnati di rugiada, la neve ovattata di vetro e pane e gli autogrill calati dall’alto come astronavi aliene. Ma noi qui, ancorati al palo, non siamo soli, non del tutto almeno. Altri pali dintorno pullulano di anime abbracciate, pseudoscrittori persi ad illudere una rima per smaltire chilometri di solitudine fino ad uncinarsi a quel loro libero liberatutti, che Dio non voglia, ma domani nella battaglia pensa che sfinito, trafitto, trapassato, è meglio che malato, che non di quale morte, di quale sorte si debba uscire di scena, ma ora no, ora non ci scommetto. Meglio questo sostegno laminato, intaccato dalle unghie, contorto quanto basta, corroborato da radici profonde. Che poi mi chiedo, ma perché proprio questo? Mica me lo sono scelto, a pensarci bene. L’hai scelto tu, sempre una donna ad illuminare, ad ispirare, che rabbia. Ci scommetto, un poco sorridi di sottecchi. Ah, i tuoi occhi, quegli occhi, un poco ti diverte. Meno male che bella non sei perfetta, almeno questo me lo devi. Altrimenti, con cosa potrebbe infervorarsi un inconcludente come me, travolto, schiacciato dalle burrasche dei tuoi sensuali cambiamenti. Grazie per aver scelto questo nostro palo, per quanto pieghevole, fragile, esile esso sia… Ma cosa stai facendo, lasci la presa, molli tutto, te ne vai, un altro giro, un’altra corsa, che c’è tempo… Stavolta cara, io non posso, non ti seguo, resto. Sai dove trovarmi, ti aspetto. Tanto c’è tempo, quel troppo, tanto poco tempo concesso. Lo so che torni, prima o poi ritorni, ci scommetto!
Avete messo Mi Piace1 apprezzamentoPubblicato in Narrativa
Il tuo stile già perfetto, che qui si supera. Fai danzare sostantivi e aggettivi rivoltandoli come vuoi tu, attorno a quel palo. Mi colpisce un po’ tutto, in realtà. Su fino alla cumbre del ‘ti amo’ e giù fino a dove anche io mi sento a volte di dover andare, oppure di sedermi ad aspettare. Credo sia il tuo racconto che più mi ha colpita. Bravissimo
“E poi, non vedi che bella la luce fioca? Si proietta tra l’asfalto, i palazzi, e l’odore dei caffè appena sfornati, di fragranze che i sensi sono fatti di voglie e acido gastrico che consuma e soddisfa altri sembianti, altre romanze”
Bravissimo. Parole messe perfettamente in fila
Originale