IL PRIMO GRANDE VIAGGIO – SHANGHAI
Serie: IL TRASFERTISTA
- Episodio 1: IL PRIMO GRANDE VIAGGIO – ZIBO
- Episodio 2: IL PRIMO GRANDE VIAGGIO
- Episodio 3: IL PRIMO GRANDE VIAGGIO – SHANGHAI
STAGIONE 1
Era ormai sera e il Tupolef 154 della China Airlines decollò dal piccolo aeroporto di Jinan con destinazione Shanghai.
Dal finestrino, tra le nebbie e il fantasmatico riflesso del mio scarno viso da ventunenne, guardavo sparire quei piccoli villaggi incastonati tra le risaie.
Perso in me stesso, pensavo a Carlo, al capocantiere Personeni, al signor Lomasto e a tutti gli altri avventurieri che, sotto quel grigio cielo asiatico, mi avevano trasmesso i primi rudimenti di volo, là dove le mie giovani ali avrebbero dovuto fendere l’aria cinese ancora per molto tempo.
Lasciandomi alle spalle l’inferno di Jinan, cercavo di immaginare Shanghai attingendo alle scene dei film di Bruce Lee che avevo visto da ragazzo. Intanto, con un certo timore, pensavo anche al capo cantiere, descritto dal reclutatore come un bisbetico lupo solitario.
Ad un certo punto, mi si fece accanto una giovane hostess che, forse incuriosita da quella insolita presenza bionda con gli occhi azzurri, non esitò a sommergermi di domande.
Notando che non ero dell’umore per grandi conversazioni, complice la stanchezza e il mio zoppicante inglese scolastico, non tardò a tornare al suo lavoro.
Arrivai a Shanghai verso le 23:00. All’uscita degli arrivi mi aspettava una giovane donna cinese con un cartello che riportava il mio nome.
Si chiamava Sindy, ed era la nostra interprete.
Fuori dall’aeroporto salimmo su un pulmino Iveco, dove mi attendeva il capocantiere in persona. Dopo i saluti di rito, si accese una Marlboro e partimmo in direzione del distretto di Jiading, una cinquantina di chilometri a nord-ovest di Shanghai.
Si chiamava Franco Fistolera, ma tutti lo conoscevano come ‘il Truda’, soprannome che i suoi paesani gi avevano appioppato causa la sua sfrenata passione per la pesca alla trota.
Era un uomo moro, di statura non elevata ma dal fisico tozzo e robusto; aveva occhi scuri e luminosi che trasmettevano un senso d’avventura.
Per via delle sue fattezze, avrebbe potuto essere la controfigura perfetta di Robert De Niro.
Raggiunta la guest house dove eravamo alloggiati, mi mostrarono la mia stanza e visto l’orario una frettolosa buona notte chiuse il sipario di quel primo giorno.
Sarà stata l’adrenalina ancora in corpo, le zanzare e un incredibile gracidare di rane ma malgrado la stanchezza la notte fu molto tormentata.
Era ancora molto presto, che primi raggi di sole e strani vocii iniziarono a trapelare dalla tenda della finestra.
Incuriosito da quei rumori mattutini e nel tentativo di capire con la luce del giorno in che posto ero finito aprii un varco nella pesante tenda.
In lontananza vidi che nel cortile di una scuola tutti gli alunni stavano facendo ginnastica e lo stesso, ma con movimenti molto più lenti, stavano facendo alcuni anziani all’angolo della strada sottostante.
Trovandomi ad est, anche se erano solo le 5,30 del mattino, il sole era già abbondantemente sopra la linea dell’orizzonte e quel brulicante popolo era già in piena attività.
Richiusi la tenda e tentai nuovamente di prendere sonno per prepararmi a quella prima giornata, ma non ci riuscii.
Una frettolosa doccia mi lavò via il torpore di quella notte d’inferno.
Svuotai la valigia e, sistemati alla meglio i miei indumenti in un logoro armadio, iniziai a prendere confidenza con gli angusti spazi di quella stanza.
La mia abitazione, si trovava al terzo piano di una palazzina piuttosto fatiscente, circondata da un alto muro dove al suo apice, come dissuasivo a scavalcarlo, avevano innestato nel cemento numerosissimi vetri taglienti; una guardiola 24/24 contingentava gli ingressi.
Mi vestii ed uscii dalla mia stanza assicurando la porta con due mandate di chiave.
Mentre scendevo le scale in cerca del locale adibito a mensa, strani odori lambivano le mie mucose olfattive levandomi ogni speranza di trovare in tavola qualcosa di appetitoso.
Arrivai all’ingresso di quello stanzone e mi soffermai, roteando lo sguardo a centottanta gradi.
Diversi tavoli unti e bisunti in legno scuro costellavano il centro della sala; in fondo, nell’angolo sinistro, si scorgeva un vecchio frigorifero e, a lato, una madia con un bollitore e una tanica d’acqua.
A destra della sala, scompostamente appollaiato sulla sedia di un tavolino, un piccolo omino asiatico alzò la testa, incrociò il mio sguardo e si lasciò andare a movimenti sussultori del capo, esclamando strani versi gutturali.
Si chiamava Satoshi Amano, un simpaticissimo giapponese che, come noi, condivideva la sorte di quella sorta di prigione.
Mi sedetti sul tavolino a lato e ricambiai i suoi calorosi e incessanti saluti reverenziali.
Dopo nemmeno un minuto, fece il suo ingresso nel salone un omone dall’aspetto inquietante che, senza nemmeno salutare, si sedette a un altro tavolo.
Era un uomo barbuto, dal fisico possente e quel poco di viso che trapelava attorno agli occhi marroni era butterato e segnato da evidenti cicatrici.
Si chiamava Bela, un meccanico ungherese esaltato e palestrato che seguiva il nostro cantiere: una sorta di vichingo, tutto muscoli e niente cervello.
Fece il suo ingresso anche un signore di mezza età, che sembrava alquanto spaesato ma che non esitò a salutare, prendendo posto il più lontano possibile dall’ungherese.
Francesco, questo era il suo nome, lavorava in un cantiere limitrofo al nostro, occupandosi della parte meccanica dei ritorcitoi. Scoprii in seguito che era laureato in Filosofia, ma probabilmente, per questioni economiche, anche lui era finito all’inferno.
Seguirono a breve distanza il Fistolera con la solita Marlboro in bocca e l’interprete Sindy con i piccoli occhietti a mandorla nascosti dietro spessi occhialini da vista.
Il capocantiere entrando nel suo ruolo da leader salutò tutti e ci invitò ad unire i tavoli rompendo così quell’atmosfera d’asocialità che si era creata.
Infatti sembravamo come quei cani che, quando inaspettatamente si incontrano, alzano il pelo e con circospezione si annusano mantenendo le distanze.
Tra qualche battutina lanciata al giapponese, discorsi lavorativi e convenevoli tra noccioline e zampe di gallina, con l’ultimo sorso di tè verde caldo anche il mio concetto di colazione venne vanificato e in meno di un batter d’occhio ci ritrovammo tutti a bordo del pulmino che ci avrebbe condotto al cantiere.
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