Il primo passo è il più scemo
Serie: A piedi controcorrente - Cronache semiserie di un fuggitivo pandemico-
- Episodio 1: Il primo passo è il più scemo
STAGIONE 1
Non so bene cosa pensassi quando ho deciso di partire. Forse che, a furia di camminare, mi sarei lasciato indietro la rabbia. O forse solo che era più dignitoso sbattermi tra fango e zaini che tra divieti, tamponi e facce stressate in fila al supermercato.
Ma prima ancora di partire, c’è stata l’anteprima dello show: io e mio cognato.
Nei giorni precedenti, ogni volta che gli dicevo: «Oh, io parto, eh», lui rispondeva come se fosse la finale dei Mondiali: «Dani, VAI! Ti prego, vai». E io, con la convinzione di chi ancora non ha deciso davvero, rispondevo: «Ora vado». Più per lui che per me.
Questa scenetta si ripeteva almeno quattro volte a conversazione, come se fosse un mantra per convincermi che non ero matto. E forse serviva anche a lui, per ricordarsi che, se fossi partito, non sarebbe stato solo un capriccio, ma qualcosa di più profondo. O forse, semplicemente, gli faceva piacere vedermi scappare prima di esplodere.
Alla fine, ha fatto più lui per farmi partire che tutti i miei pensieri messi insieme.
E quindi: zaino da trentacinque chili in spalla (sì, lo so…), zero stecche (perché no, mica ho ottant’anni, pensavo…), e un’energia nervosa che mi spingeva più della muscolatura. Primo giorno: trenta chilometri. Le ginocchia? Distrutte. L’ego? Peggio.
Ma non era solo dolore fisico. Era anche vergogna. Mi sentivo addosso gli occhi di finestre e passanti, come se stessi rubando qualcosa invece di cercare me stesso.
Eppure, io volevo solo andare. Via.
La giornata era perfetta, soprattutto considerando che era tardo autunno. Aria fresca, sole gentile, un venticello costante che mi accarezzava la faccia e asciugava il sudore dei primi passi. Il paesaggio… familiare. Forse fin troppo. Colline, vigne, boschi: il cuore verde della mia terra. Camminavo tra colline conosciute, ma qualcosa in me osservava per la prima volta. Come se avessi sbloccato una frequenza emotiva nascosta.
Verso metà della tappa, quando le ginocchia ancora non gridavano ma cominciavano a brontolare, ero già mezzo convinto di tornare indietro. Avevo fatto il brillante con mio cognato, avevo detto “vado!” con tono eroico, ma dentro di me stava nascendo quella voce infame che ti sussurra: “Ma che cazzo stai facendo, Dani?”
E poi, dal nulla, una scatola di metallo. Piantata lì, sul ciglio del sentiero. Con sopra scritto qualcosa tipo Diario del pellegrino. La apro, per curiosità più che per fede. Dentro, un quaderno mezzo sciupato e pagine piene di parole. Vere. Sporche. Dolorose. Libere.
Gente che raccontava pezzi di vita, pezzi di fuga, pezzi di sé. C’era chi camminava per ritrovare un figlio, chi per scappare da un lavoro di merda, chi per elaborare un lutto. C’era poesia e fango. E soprattutto, c’erano loro: quelli “come me”. Quelli che la società magari guarda male, ma che lì, su quel quaderno umido e stropicciato, sembravano santi laici con lo zaino.
Non ricordo cosa ho scritto. Ma ricordo perfettamente cosa ho pensato: “Cazzo. Io sono uno di loro. Non uno degli altri.”
Quel diario mi ha rimesso in cammino. E mentre il sole calava e la strada si piegava verso l’ennesimo paesino, inciampavo più nei pensieri che nei sassi.
La fine della tappa è stata tragicomica: arrivo camminando come un novantenne dopo la maratona, entro in un paese che sembrava deserto post-apocalittico, e trovo questa casa mezza sventrata, abitata da un signore napoletano.
Mani tremanti, sorriso calmo, e uno sguardo che diceva: “Qua sei al sicuro, fratello.” Per dieci euro mi dà una stanza che aveva vissuto tempi migliori. Tetto storto, pavimento a onde, ma il cuore dritto.
Mi cucina una salsiccia e una pasta al burro, roba da Re. Ma il regalo più grosso è stato lui.
Mi racconta della moglie, della diagnosi della sua malattia, della morte, del dolore e di quell’amore che non è mai davvero finito. Mi parla del figlio, di quanto lo ama, di come ogni tanto venga a trovarlo. E mi parla anche del suo Cammino di Santiago, fatto proprio con la moglie, prima che lei se ne andasse.
Non è che mi abbia detto una frase illuminante. È stato il suo volto. I suoi occhi: tristi, sì, ma non spenti. Aveva una barba lunga e bianca, che lo faceva sembrare un profeta di altri tempi. Gli mancava solo una vestaglia e un bastone per sembrare Mosè in pensione. E mentre io ero lì che crollavo a pezzi, lui mi guardava e diceva che ero un grande, che era folle e stupenda la mia idea di partire, che dovevo continuare. Con quella luce negli occhi di chi ha perso tanto, ma non ha smesso di credere che valga la pena restare.
Quella sera ho capito una cosa: la libertà non è mai comoda, e all’inizio fa anche male. Ma quando trovi qualcuno che ti accoglie con poco e con il cuore, capisci che sei sulla strada giusta. Anche se ti fa male camminare.
E poi c’è un’altra cosa che ho capito, mentre stavo sdraiato su quel letto storto con le ginocchia in sciopero e lo stomaco pieno: che la solitudine, quella vera, quella che fa paura, non è quando sei da solo in una stanza, ma quando sei circondato da gente che non capisce cosa stai cercando.
Quel vecchio signore invece aveva capito tutto. Non mi ha chiesto niente. Non mi ha giudicato. Mi ha solo dato da mangiare, una branda e un sorriso. E per uno che ha appena iniziato a camminare lontano da tutto, non serve altro.
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- Episodio 1: Il primo passo è il più scemo
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