Il sergente

Il Sergente stava in piedi, vicino alla finestra con mezza cicca che gli pendeva dalle labbra e il suo fiato caldo lasciava nuvole sul vetro. Un grosso gatto si strofinava sulle sue gambe in attesa di qualcosa da mangiare.

La tempesta di neve si era intensificata e, nonostante l’orario, il buio era sceso presto.

Succedeva così a quelle latitudini. Il confine con il Kazakistan era una linea immaginaria e il viaggiatore doveva sforzarsi per ritrovare nella realtà quella stessa frontiera tracciata sulla carta.

Il vecchio giornalista italiano appoggiava la testa sul tavolo, cercando di riposare dopo le molte ore di viaggi faticosi e scomodi. Sedeva su uno sgabello di legno di fronte a un piatto fumante di kesme. La sua giovane interprete di origine ucraina, Ana, stava in piedi davanti alla stufa e si sfregava con forza le mani nel tentativo di riscaldarle.

«Mi chiamano Sergente perché ho servito in molte guerre. In realtà quel cazzo di grado non me l’hanno mai dato. Soldato semplice» disse improvvisamente l’uomo alla finestra.

L’italiano sollevò appena la testa per ascoltare meglio.

«Mi sono fatto sempre il culo per gli altri. Guarda le mie mani: mi mancano tre dita, una nella sinistra e due nella destra. L’unica cosa che sapevo fare era la mia firma sui documenti, adesso con queste mani non posso più fare nemmeno quella».

Il vecchio giornalista si sentiva stanco. Inseguiva il Sergente da almeno una quindicina di giorni. Lui e Ana si spostavano con i mezzi pubblici: autobus e treni. Aveva pensato fosse una cosa semplice, ma questa volta l’inverno era arrivato presto. Doveva essere la sua ultima inchiesta con l’ambizione di una pubblicazione e desiderava immergersi totalmente nella realtà di quei luoghi difficili.

Avevano raggiunto Petropavl da Mosca, coprendo poco più di 2000 km in una settimana di viaggio da incubo. Si erano poi inoltrati all’interno della regione. Voleva entrare in contatto con la gente, toccare con mano. Invece aveva guadagnato un pugno di mosche: le persone erano chiuse e difficili e non parlavano volentieri con un europeo, convinti che ci fosse sotto qualcosa che li avrebbe in qualche modo compromessi.

Infine, il tempo era improvvisamente e velocemente peggiorato e rendeva complicato ogni spostamento. Inoltre, il suo Sergente era sfuggevole, si era fatto negare per tre giorni e nel frattempo avevano dovuto arrangiarsi nell’unico albergo di quella cittadina triste e grigia.

Sospirò profondamente e cercò di raccogliere le idee per gestire un’intervista decente, ma si sentiva come svuotato.

«Raccontami le tue origini» riuscì a dire.

Il Sergente scoppiò in una risata catarrosa e sputò in terra, vicino ai propri piedi.

«Sei un coglione; mi dicono che vieni dall’Italia e che mi cerchi da giorni. Mi trovi e mi fai una domanda del cazzo».

Ana non aveva tradotto tutto, ma il giornalista aveva comunque compreso la beffa e l’insulto, il russo aveva ragione. Tuttavia, quest’ultimo decise di abbassare la guardia. Si staccò lentamente dalla finestra, prese anche lui uno sgabello e si sedette accanto al giornalista.

«Sono russo, di madre Kazaka, cresciuto con gli occhi di tutti addosso. Qui, non piaccio a nessuno, sono alto due metri e faccio paura solo a guardarmi. Le donne le devo pagare».

«Perché non te ne sei mai andato?»

«Perché quelli come me non vanno da nessuna parte. Mi arruolo per chi mi paga meglio, faccio ciò che devo fare e poi torno qui. Non ho studiato, non so leggere. Dio solo sa quanto avrei voluto saperlo fare. La mettono sempre nel culo a quelli come me. Tu, invece, giornalista, cosa vuoi davvero?»

Il giornalista alzò lo sguardo diretto per la prima volta in faccia al Sergente. Vide linee profonde come solchi che attraversavano il suo viso squadrato. Gli occhi lattiginosi lo incontrarono. Avevano forse la stessa età, ma il russo sembrava millenni più vecchio. Allora il giornalista provò pena per lui, l’altro lo percepì e abbassò lo sguardo a terra provando vergogna.

Lo vide per la prima volta per ciò che era: simbolo di un popolo perduto, senza patria e senza identità. Una scuola troppo lontana per essere raggiunta nei mesi invernali. Tante botte ricevute, da coetanei e da adulti. Pensò di prenderlo per mano, mosso da una spinta puerile.

Si riprese, però, quasi subito e si diede una manata in faccia. Desiderò solamente portare a termine il suo lavoro e andarsene in fretta. La guerra era ormai giunta al suo nono mese e lui doveva salire su quell’aereo che lo avrebbe riportato velocemente a casa. L’editore voleva il reportage nelle edicole per Natale, in aggiunta al quotidiano del sabato.

Fece questi pensieri mentre fuori la neve continuava a scendere. Le luci delle poche case allineate in fila nell’unica strada erano accese, alimentate dai generatori che emettevano un rumore intenso e costante. Un uomo ubriaco cadde a terra con un tonfo sordo; si rialzò barcollando e si mise a intonare a squarciagola l’inno nazionale. Il Sergente finalmente sorrise.

Avete messo Mi Piace7 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Ciao Cristiana, in questo magnifico racconto hai reso un uomo, rude, duro, insensibile al mondo come lo può essere un mercenario, e portato dentro se stesso, al cospetto di un esame introspettivo, rendendosi “umano”. La descrizione che fa di se stesso è esattamente quello che non vorrebbe essere. Si scansa, e quel giornalista, con la sua pavida intervista, lo aiuta a sorridere un po’. Bellissimo.

    1. Grazie Nino, di cuore. Questo racconto mi è stato ‘ispirato’ da Trans Europa Express di Rumiz. Se ti va, come consiglio di lettura, credo che i suoi testi siano una delle massime espressioni di letteratura giornalistica di viaggio che abbiamo in Italia. Buon sabato 🙂

  2. Ogni volta che mi passa davanti su questa piattaforma la proposta dei diversi racconti scelti dalla Redazione e ne trovo uno che riporta il tuo nome, Cristiana Pezzotti, penso che la vita per te in questa comunità (e probabilmente anche fuori) non debba essere affatto facile. Quando pubblichi qualcosa, nel titolo del tuo racconto e nel tuo nome ci vedo sempre la promessa implicita che i tuoi lettori pretendono tu faccia loro, di essere sempre all’altezza dell’immagine di te che ti precede. Deve essere però anche bello sapere che quella promessa non l’hai mai disattesa.

    1. Bella è principalmente la condivisione e quella magia che si crea fra noi che siamo contemporaneamente lettori e scrittori. Imparo molto leggendovi, a volte rubacchio un po’, altre mi scoccio perché quella tal cosa avrei voluto scriverla io o che fosse venuta in mente a me. La scrittura è un abbraccio. Da soli risulta un gesto difficile a compiersi. Grazie Roberto.

  3. Leggendo questo racconto, non so perché, ho pensato agli uomini che compongono la compagnia Wagner. Chissà quale storia nascondono, anche i “mostri” un tempo sono stati bambini. In poche righe, hai saputo rendere il Sergente un uomo in carne ossa: chapeau.

    1. Lo spunto in effetti viene da quella triste storia di uomini così perduti da doversi vendere per ammazzare a pagamento altri uomini. Si dice anche che appartengano ad un uomo d’affari a stretto contatto con Putin Veramente fuori dalla mia portata, solo il pensiero mi fa uscire di testa. Ho però voluto immaginare che in fondo sopravviva ancora un po’di umanità e così ho cercato di fare sì che il mio personaggio si potesse in qualche modo liberare. È cristiano credere nel pentimento. Sono grata che il messaggio ti sia arrivato

  4. La stoffa c’è e che stoffa. Traspare in ogni riga, nei dettagli di una umanità perduta, nel volto di un uomo rude, tragico prodotto di quel mondo che vorremmo esistesse solo nei nostri peggioi incubi.

    1. Ho voluto dare al mio Sergente un momento di debolezza in cui avesse la possibilità di lasciare uscire la sua vera umanità. Ti ringrazio molto per aver letto e condiviso con me la tua impressione.

  5. Incredibile come tu sia riuscita a descrivere la personalita` di questo soldato, immedesimandoti benissimo in un personaggio maschile, usando un linguaggio che gli si addice e rende bene l’ idea della sua vita da sfigato. Bravissima. Dovresti proporre questo racconto per la rivista. Sono sicura che piacera` a tanti.

    1. Questo personaggio me lo sono proprio sentito cucito addosso. La sua profonda solitudine e malinconica nascosti dietro una facciata dura, volevo proprio che uscissero fuori. Ti ringrazio per aver letto e sono felice che tu abbia condiviso con me

  6. Stupendo Cristiana. Semplicemente stupendo. Questo racconto l’ho divorato parola per parola, sono arrivato alla fine che ne volevo ancora, non potevo e non volevo andare via da quella stanza lurida in un paese dimenticato da Dio ai confini del mondo civilizzato. Volevo ancora guardare negli occhi spenti l’anima del popolo russo, sentire l’alito di vodka dell’ubriaco nella neve là fuori. Complimenti.

    1. La mia posizione riguardo l’attuale guerra è assolutamente chiara e dalla parte del popolo ucraino. Però so che anche dall’altra parte c’è un popolo, uomini e donne che subiscono ogni giorno uno dei mali più grandi: un regime dittatoriale che priva della libertà. Se penso alla loro ricchezza culturale, alla loro intelligenza e al bagaglio letterario, musicale e artistico provo quasi un senso di soffocamento. Io che ho vissuto l’apertura dopo il crollo del muro, soffro perché i ragazzi vivono la chiusura. La Russia oramai è il nemico, ma dietro c’è tantissimo che non dovremmo perdere. Ti ringrazio per le tue bellissime parole. Ce l’avevo dentro e doveva uscire. Sono felice che di essere riuscita a trasmettertelo