
3 – Un po’ alla volta
Serie: Il tempo che serve alle promesse
- Episodio 1: 1 – La luce che filtra al mattino
- Episodio 2: 2 – Quel che non si è mai conosciuto
- Episodio 3: 3 – Un po’ alla volta
- Episodio 4: 4 – Prospettive
- Episodio 5: 5 – Ridere
- Episodio 6: 6 – Il tempo che serve alle promesse
STAGIONE 1
Quando mio padre non era ancora tale ma soltanto Mino, intorno ai vent’anni, era uscito una sera con gli amici, ricevendo dalla madre istruzioni precise in merito al coprifuoco, istruzioni che non potevano essere disattese.
Ma Mino era un ragazzo che al tempo già lavorava, e com’era giusto che fosse aveva pensato che le istruzioni ricevute prima di uscire fossero un po’ troppo severe per un marcantonio fatto e finito, così aveva fatto di testa sua, sforando l’orario di rientro. Di quanto lo avesse sforato poco importava. Lo aveva sforato.
Mia nonna non aveva apprezzato il gesto, e nel momento in cui era scoccata la mezzanotte e la carrozza si era trasformata in una zucca aveva sprangato la porta di casa con un ferro, in modo che potesse aprirsi solo dall’interno, aveva spento le luci ed era andata a dormire.
Una volta arrivato sul pianerottolo del primo piano sul quale affacciava l’ingresso del loro appartamento, a niente erano valsi i tentativi da parte di Mino di bussare per farsi aprire. La porta era rimasta immobile, chiusa e ferma come il volere di mia nonna.
Così Mino era sceso nuovamente in strada, aveva fatto due calcoli su quanto alcol gli restasse ancora in corpo a dargli la spinta sufficiente e si era arrampicato su per la grondaia del palazzo dove abitava fino a raggiungere la prossimità del terrazzo, sperando che le forze dell’ordine non decidessero di passare proprio in quel momento per quella stretta via del centro. Aveva scavalcato la ringhiera del balcone ed era infine entrato in casa attraverso la finestra che qualcuno, inavvertitamente, inspiegabilmente, aveva lascito aperta nonostante il freddo di quella notte.
Senza nulla voler togliere o aggiungere a nessuno, senza voler esprimere nessun giudizio, ho sempre avuto l’impressione che, anche nella loro povertà e pur non possedendo laureati tra i loro componenti, la famiglia di mio padre fosse latrice di un livello culturale leggermente più elevato di quella di mia madre.
A ben vedere, in effetti, a mio padre era stata data la possibilità di godere di un’istruzione oltre le scuole elementari dell’obbligo, attraverso quello che allora si chiamava l’avviamento secondario.
Tutta quella saggezza e lungimiranza nel voler fare studiare loro figlio evaporava, però, le volte in cui mia nonna Rosa scendeva da basso per giocare forsennatamente al lotto, dissipando non pochi dei loro già pochi risparmi.
Solo una volta era riuscita a vincere una piccola fortuna, quando per caso aveva ascoltato mio padre, bambino, pronunciare i leggendari tre numeri del dormiente durante il sonno. Mia nonna li aveva annotati, li aveva giocati il giorno dopo e questi tre numeri erano effettivamente usciti.
Mio padre non ricorda esattamente di che cifra si parlasse, ma era comunque un terno, non robetta. Ad ogni modo poco importava, perché da dove erano venuti quei soldi se n’erano presto ritornati. Solo, un po’ alla volta invece che tutti assieme, nella stessa ricevitoria sotto casa nel quartiere di Rupinaro.
***
Quando i miei genitori erano bambini a Chiavari, negli anni Cinquanta, abitavano in due quartieri differenti.
Mia madre Anna stava a San Giovanni, mio padre Mino a Rupinaro.
E loro due sostengono che, sino a quando non hanno avuto l’età sufficientemente adulta per uscire da soli la sera, da bambini non si siano mai incontrati in giro.
Che a dirla così non suona nemmeno una cosa così strana. Non suona strana nemmeno ai miei stessi genitori, ormai radicati nel loro modo di pensare.
Il fatto è che il quartiere di San Giovanni e quello di Rupinaro si trovavano (e si trovano tutt’ora) sulla medesima via.
Una stradina diritta che è poco più di un vicolo: Via Ravaschieri che ad un certo punto diventa Via Giuseppe Raggio, proprio lì nel punto in cui viene attraversata da Via delle Vecchie Mura, formando un minuscolo incrocio che è poi il discrimine delle due zone.
Ma si tratta di una ripartizione puramente nominale, perché è sempre la stessa stradina, ai quali estremi si trovano le due Chiese che danno il nome ai quartieri. Parliamo di duecento metri, forse anche meno, costeggiati da palazzi alti tre o quattro piani, antichi, in stile barocco genovese, dall’intonaco e dai colori spesso piacevolmente sbiaditi. Pavimentata con dei lastroni che si incontrano obliquamente a formare una V rovesciata – oppure una V e basta, a seconda dei punti di vista – che quando ci passi sopra con la bicicletta e hai le ruote un po’ troppo gonfie senti partire dei sussulti violenti che iniziano dalle caviglie e arrivano sino alle tempie, procurandoti un mal di testa che ti accompagna ancora qualche minuto dopo esserti nuovamente immesso sulla strada asfaltata, uscito dal centro storico.
È una delle poche vie della mia città che ad averla vista con gli occhi dei miei genitori quando erano giovani, e a guardarla con i loro stessi occhi oggi, il cambiamento lo si percepisce per lo più nel modo in cui sono vestite le persone e nella direzione in cui punta il loro sguardo, dritto e consapevole davanti a sé allora oppure inerte davanti ad uno schermo oggi.
E più la percorro, a piedi o pedalando, tanto più fatico a comprendere come sia stato possibile non essersi mai incontrati da bambini, in quello spazio in cui passi davanti a Villa Rocca, starnutisci e sei a San Giovanni. Prendi il fazzoletto dalla tasca, ti soffi il naso e quando lo rimetti a posto sei già a Rupinaro.
Come possono non essersi incrociati per quelle viuzze, non essersi ritrovati in piazza Mazzini, lì sulle catenelle che delimitano il monumento, dove alla mattina c’è il mercato della frutta e della verdura, per giocare ai giochi a cui giocavano loro?
Come è possibile, mi chiedo io, se la fotografia che ho trovato in una scatola di cartone zeppa di immagini in bianco e nero mi racconta esattamente il contrario?
Serie: Il tempo che serve alle promesse
- Episodio 1: 1 – La luce che filtra al mattino
- Episodio 2: 2 – Quel che non si è mai conosciuto
- Episodio 3: 3 – Un po’ alla volta
- Episodio 4: 4 – Prospettive
- Episodio 5: 5 – Ridere
- Episodio 6: 6 – Il tempo che serve alle promesse
Sai Roberto che, se potessi, ti verrei a tirare le orecchie? 🙂
Naturalmente scherzo! Però con questo mio incipit forse infelice, vorrei dirti che hai fra le mani una storia bellissima, quella personale, che si srotola su diversi livelli temporali e si lascia leggere con gusto e con quella nota di nostalgia che stringe lo stomaco. Credo che tre parti non bastino. Fai così. Prendile in mano, non avere fretta, lascia uscire tutte le emozioni legate al ricordo e scrivi di te, raccontaci di te. Prendi il lettore afferrandolo al cuore e non lasciarlo scappare. Questo è un assaggio, parole che hai cullato, ma che non sono sufficienti. Certo, ci vuole coraggio, ma Toso può tutto. Un abbraccio Roberto.
Ciao Cristiana! Allora, ti voglio ringraziare intanto perché mi scrivi sempre delle parole incoraggianti, e poi ci tengo a rassicurarti sul fatto che questa non è la fine della storia. Ho un obiettivo ben preciso anche se non sarà l’epopea di una vita, perché l’intento è diverso. È solo che avevo finito una parte del racconto e volevo pubblicarlo. Questo ogni tanto mi serve anche per allenarmi a seguire un punto fisso, dal quale non mi posso più discostare perché pubblicato
Allora aspettiamo ☺️
Mi è piaciuto tantissimo il modo in cui hai ripreso l’inizio della storia, per introdurci in un nuovo racconto, ripartendo dalla storia dei genitori. Ho immaginato tutti i personaggi che ci hai presentato, vivere a pochi metri l’uno dall’altro, scendere a prendere il pane, passeggiare, andare a messa, insomma…si saranno incontrati o no? 🙂
Eh eh, è stato un bel colpo di fortuna che mi sia saltata in mente l’idea, non sapevo come chiudere quella gigantesca introduzione 😊