
Incontro con il direttore
Serie: Anatomia sepolcrale di un sogno
- Episodio 1: L’arrivo e le altezze
- Episodio 2: Il coltello e i ricordi
- Episodio 3: Nel cuore della notte
- Episodio 4: Ombre rosse
- Episodio 5: Le parole nel buio
- Episodio 6: Il temporale
- Episodio 7: La visione
- Episodio 8: La rivista di poesia ermetica
- Episodio 9: La finestra dell’albergo
- Episodio 10: Il solletico dell’assassino
- Episodio 1: La prima accoglienza
- Episodio 2: Ingresso in camera
- Episodio 3: Prima di cena
- Episodio 4: Inizio della cena
- Episodio 5: L’arrivo a Praga
- Episodio 6: Vita con Edo
- Episodio 7: Delle carte utili e inutili
- Episodio 8: Col respiro spezzato
- Episodio 9: Primi mutamenti
- Episodio 10: Incontro con il direttore
- Episodio 1: L’invito domenicale
- Episodio 2: La sentenza
- Episodio 3: Riverberi dal pranzo
STAGIONE 1
STAGIONE 2
STAGIONE 3
Dopo qualche minuto eravamo al bar della stazione. Occupammo subito un tavolino e aspettammo. Era Edo il più emozionato tra noi due. Volle controllare per un’ultima volta le mie carte, con una scorsa veloce. Mi chiese cosa gradissi. Io non avevo né fame né sete; preferivo aspettare il direttore.
«Quanto manca?» gli chiesi, e lui mi disse dieci minuti. Passava il tempo… e quando io gli domandavo lui mi ripeteva sempre dieci minuti, non uno di meno, come se il tempo si fosse fermato. Mi domandò come gli stava la cravatta rossa. Gli ricordai, con disagio, della storia del nipote, del figlio autistico della sorella, della versione alterata che aveva raccontato ai colleghi: «Perché inganni i tuoi colleghi?».
«Ma non è un inganno. Ho realmente una sorella italiana con un figlio autistico, ma loro non l’hanno mai visto e mai lo vedranno, capisci?» quando dalle nostre spalle al tavolino si formò un’ombra, poi una voce grassa e ruvida: «Eccomi a voi, signori!» e subito Edo fece un balzo. Scattò in piedi, scostò l’altra sedia per far sedere il direttore, il quale a stento gli aveva rivolto lo sguardo, fissando solo la mia espressione smarrita, quando cercavo di ricomporre le carte che Edo aveva disordinato con le sue mani troppo nervose.
«Tre cappuccini» ordinò il direttore. Offrì lui, non volle ragioni. Era di poche parole. Una persona rozza, dal viso assente, inespressivo, con un cappotto logoro, una rasatura approssimativa e i capelli a spazzola. Edo gli rammentò subito con nostalgia il periodo in cui lui scriveva i suoi primi versi. Il direttore gli accennò a situazioni avvenute in seguito: la nuova poesia, le correnti sperimentali, la crisi della cultura: «Tutto cambia e degenera, ma noi cerchiamo di resistere, e vorrei che anche tu riprendessi il tuo percorso di un tempo.» E lui: «Lo so, lo riconosco e sono commosso dalle sue parole, direttore. Le prometto di pensarci su, intanto… vorrei andare al punto del nostro incontro e parlarle del mio giovane amico e forse… – dico forse perché il termine che sto per utilizzare oggi è ahimè ancora diffuso. Non mi permetterei di precludere un suo giudizio, insomma, oltre che giovane amico anche poeta, poetino in erba, poetastro, scrivano, non so, sarà lei a decretare il termine esatto, naturalmente, una volta affrontata con calma la sua produzione inedita. Non voglio precederla o condizionarla. Sa bene che non è da me.»
«Dica semplicemente il suo nome, avanti, poche storie» fece il direttore.
«Si chiama Stain. Ma è italiano. È un diminutivo e insieme un refuso di Stanislao» gli disse con voce roca, impallidendo.
«Il direttore mi guardò con un’aria severa, interrogativa. Poi osservò Edo, con un’espressione diversa. Edo tentò di colmare alla meglio la fase di sospensione. Il direttore gli chiese con tono brusco di poter visionare i miei appunti poetici. Edo gli porse la cartellina, descrivendogli in modo convulsivo la natura delle mie carte facili e meno facili, utili e inutili, appunti provvisori, poetici, impoetici, definitivi, e via discorrendo, fino a quando il direttore, seccato, non lo pregò di lasciarlo fare; nel silenzio, possibilmente. Edo aveva parlato fin troppo, forse in modo spropositato – il direttore aveva ragione. Era un fiume in piena, non si era fermato un momento, che assurdità. Poi, quando Edo si ammansì, il direttore alzò gli occhi verso di me:
«Stanislao suona meglio. Lo trovo più efficace di Stain. Per il resto faccia lei, ma se me lo permette, gradirei poterla chiamare con il suo nome naturale. Meglio eliminare subito convenzioni, diminuzioni e contrazioni, quando possibile, a partire dal suo nome, e adesso lasciatemi guardare di cosa si tratta. Non ci metterò molto» disse, e cominciò a immergersi nelle varie cartacce presenti nella mia cartellina. Edo era più emozionato di me; mi dava dei piccoli colpi sotto il tavolo, con la scarpa, all’altezza del polpaccio, facendomi sobbalzare per lo spavento e il dolore. All’inizio pensavo fossero dei segnali cifrati, invece era lui che tremava tutto, dalle gambe, alle braccia, fino alla bocca, nemmeno i versi che il direttore stava esaminando fossero i suoi.
«Passarono alcuni minuti, che a me sembrarono ore. Il direttore aveva uno sguardo ispirato e serafico sul disordine della mia produzione, che per qualche momento affinò l’aspetto di trasandatezza che avevo notato a primo impatto. Mi dava l’impressione di intrattenersi per molto tempo sullo stesso punto, e che l’occhio si limitasse ad oscillare su due, massimo tre parole, o nemmeno. In alcuni istanti pareva inchiodato su di una parola sola, in altri addirittura sulla lampadina fulminata di una lettera, poi riprendeva a scorrere, mentre io cercavo di fingermi altrove, almeno con gli occhi, guardando le persone che entravano e che uscivano dal bar. I colori dei pullover, dei cappotti, delle mantelline da pioggia di una scolaresca in viaggio. La prontezza di un bacio, di uno sfioramento, il tremito convulso di un addio. La campanella di un arrivo imminente. Gli occhi perduti di mia madre, che non hanno mai viaggiato… e i suoi capelli sciolti nelle sue grida sognanti, con un ferro da calza conficcato in un seno e mio padre già lontano, col viso sfigurato nelle ombre della sua giovane prigioniera, mentre ritornano a casa a piedi, nella nebbia di un pontile, nell’atrio di una scuola o di un manicomio di streghe.»
«Avrei necessità di visionarle con calma – se Stanislao me lo consente, naturalmente» disse il direttore, guardando negli occhi Edo, che ormai non stava più nella pelle e che rispondeva per me, profondendosi in mille vezzi e moine, davvero insopportabili:
«Ma certo, si prenda il tempo che vuole, direttore. Gli scritti di Stanislao sono come i suoi. Potrà farne ciò che desidera. Non è vero, Stanislao?» ma a me non andava che le mie carte, appunti o provini di poesiole che fossero, passassero di colpo nelle mani di uno sconosciuto, direttore di una rivista di poesia ermetica di Praga. Ebbi qualche istante di tentennamento, che il direttore percepì a volo, infatti dopo qualche istante mi chiese:
«Tutto bene, Stanislao? C’è qualcosa che non va?».
Serie: Anatomia sepolcrale di un sogno
- Episodio 1: La prima accoglienza
- Episodio 2: Ingresso in camera
- Episodio 3: Prima di cena
- Episodio 4: Inizio della cena
- Episodio 5: L’arrivo a Praga
- Episodio 6: Vita con Edo
- Episodio 7: Delle carte utili e inutili
- Episodio 8: Col respiro spezzato
- Episodio 9: Primi mutamenti
- Episodio 10: Incontro con il direttore
Mi ha molto colpita il modo in cui si riuscito a descrivere l’incontro, esaminando e fornendoci il punto di vista dei tre personaggi. Tutti estremamente veri e coinvolti da questo incontro. L’entusiasmo di Edo sfocia in una sorta di nervosismo che definirei “genitoriale”. Ricorda l’ansia delle mamme e dei papà quando sperano così tanto nella riuscita del figlio da diventare quasi opprimenti. Il direttore appare rude, trasandato, ma leggendo le poesie è come se si illuminasse, perdesse la scorza in favore dell’anima e della sua passione. Infine Stain, impaziente, ansioso e timoroso di essere giudicato, vulnerabile. Si guarda intorno, ricorda la madre. Avendo conosciuto l’uomo che sarà mi ero convinta, a torto, che fosse poco dotato di questa umanità. Invece l’ha avuta, e forse era troppa, e la vita, il crescere, lo hanno portato a nasconderla chissà dove.
Eccoci, Dea. Hai colto esattamente i canali all’interno dei quali ho cercato di gestire l’episodio, o sarebbe meglio parlare di scena, dal momento che mette in gioco tutte le strategie e le problematiche della commedia.
Ci sono tre persone completamente diverse, che si incontrano per una materia ancora effimera, accennata su fogli approssimativi, al confine con l’inesistenza, eppure il loro confronto deve in qualche modo sopravvivere, funzionare e resistere alle condizioni offerte dalla struttura. Non accade nulla di sostanziale. Non ci sono colpi di scena, eventi più o meno drammatici che giustifichino l’evoluzione della storia, ma il loro sguardo, le loro singolari interiorità e le loro postazioni diventano degli spadini che scalfiscono la monotonia e il grigiore di una zona ancora di transito, dove passano i viaggiatori anonimi, sempre di corsa, concentrati sulla loro vita, le loro cose, incarnando inconsapevolmente i fantasmi del giovane poeta, che astraendosi dalle macerie del suo immaginario, è già proiettato, attraverso il suo sguardo, in una dimensione altra, dove passato, sogno, immaginazione, futuro, disincanto, dolore e realtà si incrociano in un altro continente dell’essere, un esopianeta misterioso dove forse ritrovare un indizio di pace o di ospitalità, e forse anche quel senso di umanità che è sempre alla base di ogni percorso di perdita dentro e oltre se stessi, che un’esperienza artistica riesce spesso a collaudare e a ottimizzare, spesso al confine con la disperazione che accompagna l’intento. Il senso di umanità che hai colto rappresenta la pietra angolare di ogni evoluzione, quindi. Grazie del tuo sguardo e delle tue giuste considerazioni, che rappresentano sempre un grande stimolo e un ottimo motore per i miei studi. Un saluto.
Ciao Luigi, sempre un piacere leggerti! Devo dire che per un attimo ho vissuto anch’io l’ansia di parlare con il direttore di una rivista!!! 👍👍👍
Ciao, Alberto. Grazie di questa tua preziosa suggestione. Mi rincuora davvero tanto. Un saluto e buona scrittura. A presto.
Che emozione: finalmente l’incontro con il direttore! Confesso di aver provato ansia anch’io come Edo, mentre il direttore leggeva le poesie in
silenzio. Bravo Luigi, episodio ben riuscito.
Ciao, Arianna, e grazie della tua partecipazione così sentita alle vicende del poeta e dei suoi compagni di viaggio. Immedesimarsi, come fai tu, è una delle esperienze più belle che sia in grado di offrirci l’esperienza della lettura, come della scrittura. La possibilità di sentire la vita che accade in una pagina, anche solo in un frammento, come qualcosa di nostro, di intimo, che non è più lontano dal nostro lume da tavolo, dalla luce che entra dalla nostra finestra, da un oggetto caduto dal piano di sopra, o dalle nostre mani.
Per me è sempre emozionante perdermi nei vari livelli di realtà, senza opporvi resistenza, e sapere che in questa piccola prova qualcosa del genere sia accaduto anche a te, mi rende davvero contento e speranzoso. Un grazie e un saluto.
Un capitolo perfetto, a mio parere. Oltre al livello di scrittura sempre molto alto, qui, è come se le tue parole ‘mostrassero’ finalmente ai miei occhi il Poeta, nella sua essenza di ragazzino. Abituata a guardarlo attraverso gli occhi degli altri personaggi che lo affiancano, per la prima volta mi pare di guardarlo attraverso i tuoi. E, finalmente, lo vedo per come è. Anche lui insicuro, spaventato, umano. L’ho immaginato seduto, con i piedi quasi a penzoloni che non toccano il pavimento e il pensiero che rincorre mille pensieri per colmare l’attesa. Splendida l’immagine della madre “Gli occhi perduti di mia madre, che non hanno mai viaggiato… e i suoi capelli sciolti nelle sue grida sognanti, con un ferro da calza conficcato in un seno e mio padre già lontano, col viso sfigurato nelle ombre della sua giovane prigioniera, mentre ritornano a casa a piedi, nella nebbia di un pontile, nell’atrio di una scuola o di un manicomio di streghe”. Forse, una delle tue più riuscite. Ho letto davvero con piacere questa parte che chiude la seconda stagione e guardo Stanislao in altra maniera, finalmente 🙂
Ciao, Cristiana e grazie tantissimo delle tue parole, che come sempre mi confondono – sono sincero.
Il capitolo che chiude una stagione lo sento sempre un luogo magnetico e problematico, che mi responsabilizza verso determinate scelte formali, spiragli di nuovi fronti, risonanze, possibilità. La tua lettura è sempre mirabile e immersiva, ed è molto rincuorante, per quanti siano stati i dubbi che hanno attraversato le fasi progressive di questa mia nuova stesura.
Hai colto in profondità i fantasmi e i processi visionari dell’infanzia di Stanislao (cambio immediato di nome e di Gestalt operato dal direttore della rivista, in modo inconsapevole, quanto atomico per gli equilibri più interni del racconto) che rappresentano gli elementi fondanti su cui si articola e si impianta tutta la serie: il potere disgregante, doloroso ma edificante dell’incontro con le proprie ombre e i propri misteri. Il poeta lo innesca strategicamente attraverso il resoconto singolare del suo passato, offrendo anche ai suoi commensali, e compagni di classe di un tempo, la possibilità di un simile viaggio nell’abisso, che difficilmente avrebbero compiuto senza il suo arrivo funesto, quanto iniziatico e catartico nelle loro vite. Sono felice che a fine stagione Stanislao abbia cominciato gradualmente a sorriderti. Grazie della tua attenzione e impeccabile dedizione alle mie prove.
‘Umanità’, ecco finalmente cosa sento in lui che lo rende più accessibile. Quel pensiero alla madre, mi resta nella testa. Davvero molto bello.
Quel punto relativo alla madre, lo sento il cuore battente dell’episodio. Grazie ancora.
Bene, mi è piaciuto!
Ciao. Ne sono felice. Grazie della tua attenzione e del tuo commento. A presto.