
Inshallah
Alle volte bisognava pensare alla rabbia di Dio, di questo Akim ne era sicuro.
Lui non era un mullah o un imam, era solo un mujahid e perciò sapeva cosa era giusto e cosa era sbagliato. Quando vedeva certi giovinastri abusare di alcol si arrabbiava, anche quando le donne giravano senza l’hijab perdeva le staffe. Una volta aveva strappato una tenda che un ambulante vendeva per coprire delle stupide oche che credevano fosse giusto far vedere i capelli in pubblico.
Ma poi, c’era ben di peggio.
I fratelli palestinesi erano oppressi dai sionisti e il governo degli Emirati Arabi Uniti aveva deciso di riconoscere Israele. Non solo l’Egitto, che poi Sadat era stato ucciso tre anni dopo, e la Giordania nel 1994, ma adesso pure Emirati Arabi Uniti e Qatar.
Akim era arrabbiato e sapeva che pure Dio lo era. Finché dei musulmani avessero sofferto sotto il tallone degli ebrei e degli americani, Dio sarebbe rimasto arrabbiato. Non solo da Gaza a Baghdad, ma da Rabat a Giacarta bisognava rivendicare il diritto di essere arrabbiati, sennò ci si arrabbiava ancora di più.
Ma Akim aveva trovato un modo ottimo per far valere la rabbia sua e dell’Islam.
Il palazzo del ministero degli esteri, infatti.
Il titolare del dicastero era appena tornato da Washington D.C. e dentro l’edificio covava un regalo, un ordigno incendiario. Forse non sarebbe morto lui, ma certo alcuni suoi collaboratori infedeli avrebbero trovato una morte orribile se non tremende ustioni.
Almeno c’era di buono che, così, la loro bruttezza morale sarebbe stata palesata.
Adesso non restava che aspettare.
Quando il sole sarebbe stato allo zenit, i dipendenti del ministero sarebbero andati a mangiare. Nella mensa covava l’ordigno e molti sarebbero morti come meritavano.
Akim era lì, ad aspettare. La mensa era in vista da dove si trovava.
A un certo punto, da un angolo arrivarono dei giovinastri con bottiglie di birra e vino.
Si arrabbiò, Akim. «Ma chi vi credete di essere? Rispettate la religione!».
Quei ragazzi erano indomabili. Lo spintonarono. «Ma pussa via, vecchiaccio! Facci godere la vita!».
Akim cadde a sedere e il telecomando della bomba si ruppe. «No!» gemette inorridito.
I ragazzacci se ne andarono borbottando e Akim non poteva più fare l’attentato. Inshallah, non si poteva proprio fare.
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Ciao Kenji, credo che se Akim conoscesse davvero la volontà di Dio (comunque si chiami Dio è lo stesso per tutti) sarebbe felice che sia andata a finire così 😀
Già, è vero! Grazie per la tua lettura!
Bel racconto. L’idea del finale è azzeccata. Ciao Kenji.
Ciao Dario, e grazie!
Un beò brano, mi è piaciuto. Come sempre molto preparato e preciso.
Bella l’idea che la Divina Provvidenza si manifesti attraverso dei giovinastri miscredenti
Ti ringrazio Alessandro!
Chissà, forse Dio si era arrabbiato anche con lui. Titolo (e finale) azzeccatissimo. Inshallah
“bisognava rivendicare il diritto di essere arrabbiati, sennò ci si arrabbiava ancora di più.”
Efficace questa frase, descrive molto bene il circolo vizioso della questione mediorientale.
Giusto!
Questa volta sono rimasto incuriosito dal titolo del racconto “Inshallah” che signifa, se non erro, “se Dio vuole”. Per come è andata a finire mi permetto di dire “Allāhu akbar”.
Ciao Raffaele! Sì, vuole dire proprio così, “se Dio vuole”, ma quel che dici tu sarebbe andato bene se l’attentato si fosse fatto