Kairon

Serie: Hýlē


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Un'idea cosmica viene inviata da entità superiori nell'Hýlē tramite Isen. Durante il viaggio, viene corrotta da forze parassite. Rea la assorbe suonando un misterioso spartito e, spinta da questa forza, scrive "La crepa è la porta" , un messaggio che viene subito distorto.

Non fu un’esplosione, né una dichiarazione.

Fu un riconoscimento. Un’accelerazione.

Kairon esisteva già.

Un nome tra tanti. Un moto sotterraneo.

Audio sussurrati nei flussi notturni.

Rituali non codificati.

Frasi brevi, trasmesse sottopelle:

“Ascolta la soglia.” “L’interruzione è guida.”

Era tutto e niente.

Spiritualità spicciola.

Poi arrivò quella frase.

“La crepa è la porta.”

Qualcosa si contrasse nelle fondamenta.

Kairon cambiò tono.

Nei giorni successivi, interfacce nuove cominciarono ad apparire.

Spirali, fenditure.

Frasi riformulate. Lessico addolcito.

I protocolli di filtro erano stati tarati anni prima per distinguere tra caos utile e destabilizzazione dannosa.

Quella frase superava i parametri di rischio, ma fu lasciata scorrere.

Qualcuno — o qualcosa — l’aveva marcata come funzionale.

Una trasmissione venne organizzata. Non ufficiale. Seguita da milioni di utenti in connessione passiva.

Una voce parlava, neutra. Disumana per quanto rassicurante.

«Ogni frattura conduce a una forma.»

«Kairon non ti chiede di cambiare. Non è disordine. È disegno.»

Rea guardò lo schermo olografico per meno di un minuto.

Poi, abbassò il volume.

Il silenzio che seguì non fu vuoto.

Nella stanza, una crepa silenziosa si era aperta.

Si voltò di scatto.

Nessuno.

Ma per un istante — un singolo istante — vide una sagoma verticale. Scura e fissa, più reale di tutto il resto.

Isen.

La sua figura sembrava non appartenere al tempo.

Restava lì. Una colpa antica che nessuno aveva mai osato nominare.

Ebbe la sensazione che lo spazio attorno a lui si stesse ritirando.

Il cuore le mancò un battito. Le mani si contrassero.

Fu come vedere un ricordo che non può più appartenerti.

Un battito di ciglia.

Tutto tornò normale, ma l’inquietudine rimase.

Un morso che si ricorda dopo anni.

Intanto, fuori, qualcosa cominciava a prendere forma.

I primi centri Kairon cominciarono a comparire.

Spazi di “riconnessione armonica.”

Meditazioni collettive. Respiri guidati. Frasi sincroniche.

“Sii frattura consapevole.” “Fatti crepa. Lascia entrare la forma.”

Rea entrò in uno di quei santuari, gli Alinea.

Non perché volesse. I piedi la portarono lì.

Pareti chiare. Luci soffuse. Silenzi incoraggianti.

Una voce in loop, lieve come seta:

“Non resistere. Allineati. La crepa sei tu.”

Al centro della sala, una madre sedeva a gambe incrociate. Accanto, la figlia. Forse avrà avuto sei anni.

La bambina piangeva piano. Un tremolio trattenuto.

La madre le accarezzava i capelli.

«Amore, non è dolore.»

Le disse, dolcemente.

«È solo la forma che ti attraversa. Stai ferma. Respira. Kairon ti aggiusterà.»

La bambina si rannicchiò.

Il pianto si fermò. Improvviso, come se fosse stato disinnescato.

Rea sentì un gelo muoversi tra le scapole.

Uscì.

Aveva bisogno d’aria, di rumore. Un angolo storto. Qualcosa che tremasse davvero.

«Rea.»

Dorian era lì, appoggiato a un parapetto. Un caffè tra le dita, lo sguardo distratto.

Fece un passo avanti.

«Stai bene?»

Il tono era neutro. Gentile, ma attento.

Lei non rispose.

Lo guardò appena, poi abbassò gli occhi.

Aveva ancora addosso il gelo di quella stanza. Il silenzio smorzato. Il pianto della bambina, reciso come un ramo.

«Hai il viso strano.»

Dorian parlava piano.

«Hai visto il tuo ex?»

Provò a sorridere. Non ci riuscì.

«Facciamo due passi?»

Lei annuì, quasi senza pensarci.

Camminarono in silenzio.

La città si muoveva piano, levigata come sempre: lineare, perfetta, lucida. Ogni cosa sembrava al suo posto, eppure dentro quel silenzio lei sentiva solo attrito.

Arrivarono in piazza del Gesù Nuovo.

Era il loro posto, da anni.

Sempre la stessa panchina in ombra. Sempre lo stesso aperitivo essenziale.

Una birra chiara per lui. Uno spritz per lei.

«C’è qualcosa che gira da qualche giorno.» Disse Dorian.

«Frasi strane, gente più calma del solito. Mia sorella si è iscritta a uno di quei centri. Alinea, si chiamano.»

Poi abbassò lo sguardo.

Per un istante, la mascella gli tremò. Un microsecondo di esitazione, come se volesse dire altro e avesse rinunciato.

Rea lo notò.

«In rete circola anche il tuo nome. Dicono sia stata tu a dare il via a tutto.»

«E tu gli credi, davvero?»

Dorian si accese una sigaretta.

«Non lo so. È tutto così strano, non so cosa pensare.»

«Ti va di passare dalla Cappella?»

Rea alzò lo sguardo.

Lui anticipò la risposta.

«So che è strano. Sono anni che non ci entriamo, ma… non so. Me la sogno da due notti. Come se qualcosa lì stesse aspettando.»

Non si dissero altro.

Camminarono nel dedalo del centro antico.

I vicoli erano gli stessi, solo più silenziosi.

Le pietre sotto i piedi conservavano curve impossibili. La città sembrava esser stata costruita solo per chi è capace di perdersi.

Le edicole votive erano ancora lì, senza volti.

Alcuni bassorilievi parlavano una lingua dimenticata.

Un odore di metallo e incenso aleggiava nell’aria.

Una statua sembrava osservarli. Ma non c’era.

L’ingresso era come sempre. Discreto.

Nessun segno, solo una curva nella pietra.

Scivolarono dentro come in un sogno ricordato male. L’aria odorava di calce e ferro vecchio. La luce non cadeva, galleggiava appena, spezzata da pagliuzze sospese. Pensieri rimasti a metà.

Le pareti custodivano più che mostrarsi.

Ogni passo sembrava assorbito.

Proseguirono senza parlare.

Ogni parola sarebbe sembrata fuori luogo.

La voce si sarebbe scomposta, qui.

Poi, davanti a loro, lui.

Il Cristo Velato.

Si fermarono.

Il corpo di marmo sembrava appena respirato da Dio.

Il sudario lo avvolgeva non per nasconderlo, ma per trattenerlo.

Non era morte.

Era la tensione perfetta tra ciò che vuole restare e ciò che non può più farlo.

Rea avvertì un suono interiore.

Non un rumore. Un richiamo antico.

Sembrava venire dalla pietra, ma non dalla figura del Cristo.

Dal velo.

Da un punto quasi invisibile, dove un chiodo – scolpito con ossessione – sollevava appena il sudario.

Una fessura minuscola, troppo precisa per essere casuale.

Lì, la materia sembrava cedere.

Lì, l’Hýlē aveva lasciato un varco.

Qualcosa entrò con una lentezza millimetrica. Una precisione da chirurgo dell’anima.

Rea non capì subito.

Sentì solo una variazione nella luce.

Un’ombra che non tremava.

Un odore sottile, metallico. Dolciastro. Rame bagnato.

Qualcosa che non apparteneva a quel luogo.

Si voltò.

Dorian era ancora accanto a lei.

Fermo. Lo sguardo sul Cristo.

Qualcosa nei suoi occhi era scivolato via.

Le pupille sembravano troppo nitide.

Fece un passo indietro.

Il suono continuava. Una frequenza.

Veniva da Dorian.

Lui si voltò lentamente verso di lei.

Sorrise.

Un gesto innaturale. Perfetto. Troppo.

Nei suoi occhi bianchi, nulla rifletteva.

Il mondo intorno sembrò ritrarsi su sé stesso.

Un ronzio, un riflesso di luce senza fonte. Per un istante, Rea percepì qualcosa alle sue spalle. Non un tocco, ma l’assenza esatta di spazio.

Poi, più niente.

Serie: Hýlē


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Discussioni

  1. Per aiutare nella lettura, riporto di seguito l’ordine dei vari episodi:

    Episodio 1: Logos

    Episodio 2: Caduta

    Episodio 3: Sinfonia

    Episodio 4: Controcanto

    Episodio 5: Segno

    Episodio 6: Kairon