
la fermata dell’M34
Mancheranno un paio d’ore all’alba, sono seduto alla fermata, sotto la tettoia. Lei è in piedi, testa pesante e bassa, davanti a me, non ci conosciamo e probabilmente non ci rivedremo mai più, ma ora stiamo aspettando l’autobus insieme. Noto che sta piovendo ma non saprei dire quando ha iniziato, sembra che le cose siano sempre state così.
È una di quelle strade in cui i lampioni ci sono ma nessuno li ha mai visti accesi e solo quando i fari di una macchina sbucano dalla nebbia si potrebbe vedere qualcosa, ma non si vede niente comunque perché si viene accecati.
Lei mi sembra non avere idea di dove si trovi, penso viva da poco qui e non sia mai stata in questa zona, noto che ha il cellulare spento, probabilmente scarico, sembra sapere solo che deve aspettare l’M34 a questa fermata.
A volte estrae il telefono dalla tasca per abitudine, forse trova un piccolo sollievo nella familiarità di quel gesto, lo ripone subito in quanto spento, ma a volte cambia tasca. In faccia ha un trucco pesante ed indossa una pelliccia economica, minigonna jeans sopra delle calze e degli stivali in pelle, probabilmente era in discoteca e ha litigato con qualcuno, decidendo di andarsene da sola, penso questo anche perché mi sembra nervoso il modo in cui cammina avanti e indietro. Sì. Probabilmente ha avuto un’orribile serata e non vede l’ora di tornare a casa per resettare tutto e passare al giorno dopo.
A volte si siede e appoggia la guancia al pugno, il gomito alla gamba, In questi momenti guardo altrove fingendo di non averla nemmeno notata, faccio dondolare a tempo una gamba, lei sbuffa più spesso di quanto ci si aspetterebbe, probabilmente non vede l’ora di arrivare a casa e togliersi quegli stivali. Ma ogni volta che sta per passare una macchina si alza e assume una postura impeccabile, camminando con eleganza avanti e indietro, penso si illuda che sia l’autobus, non capisco come si faccia a non distinguere il suono del motore di un autobus da quello di una Clio, tra l’altro sembra rendersi conto che era una macchina solo dopo che questa è passata e scomparsa nell’altra nuvola di nebbia, solo allora torna alla sua forma originale, stanca, consumata, delusa.
Io invece capisco quando l’autobus sta arrivando prima ancora che compaiano i fari, inizio allora a prepararmi per salire, metto la mascherina.
Sto per alzarmi ma noto che lei non reagisce all’arrivo del mezzo, continua la sua routine come se non avesse nemmeno notato il gigante di lamiera, inizio a pensare che lei non sia qui per l’autobus, ma per l’attesa stessa. Voglio capirla, decido di rimanere seduto e lasciar andare l’autobus. Tanto se anche andassi a buttarmi su quel materasso sporco ora, non riuscirei a chiudere occhio, fisserei le macchie di muffa sul soffitto chiedendomi cosa succeda nella mente di questa persona. L’autista ci guarda, occhiaie da turno notturno, confuso, con l’espressione di chi sa di guidare l’unico autobus che passi per di qua, quando si accorge che non saliamo scuote la testa, occhi in alto per imprecare, o forse per guardare nello specchietto. La porta si chiude, il mezzo si alza con quel solito suono idraulico e riparte, siamo di nuovo soli.
Passano altri venti minuti in cui il suo atteggiamento non cambia, non sembra nemmeno chiedersi perché io sia ancora lì, intanto sono arrivato a pensare di tutto, sarà di un altro mondo? non sembra avere nessun contatto con l’ambiente che la circonda, potrebbe essere solo un’entità, un’idea, un’astrazione, o è forse sonnambula? È una mia allucinazione? Come giungo a questo pensiero vengo interrotto da un motore in avvicinamento, sbucano i fari dalla nebbia e poi prende forma l’auto, una vecchia Mercedes, rallenta, accosta una decina di metri prima della fermata.
Lei, entrata già in modalità “postura impeccabile” da quando ha sentito il motore, sembra, ora che l’auto si è fermata, essere passata ad un ulteriore livello di impeccabilità, inizia a camminare con la miglior andatura che le abbia mai visto in tutti i 40 minuti che ci “conosciamo”. Sono confuso, mi sporgo per capire cosa succede, lei sale dalla parte del passeggero, la luce interna all’abitacolo è accesa e dopo un breve scambio di parole l’uomo alla guida, sulla cinquantina, inarca la schiena sollevandosi leggermente sul sedile per raggiungere con la mano destra la tasca posteriore dei pantaloni, estrae il portafogli da cui brandisce una banconota, lei la prende con tre dita, noto solo ora le lunghe unghie finte, com’è possibile che le noto ora da lontano?
L’auto parte, mi passa davanti, e solo allora, per un secondo, ci guardiamo negli occhi attraverso il finestrino, lei li socchiude leggermente come per guardare meglio, sembra meravigliata, come se mi avesse notato solo ora, ma dura pochissimo poiché l’auto avanza e la luce interna si spegne, l’ultima cosa che noto è il parasole colorato per proteggere i bambini dai raggi solari sul vetro posteriore, spiderman o qualcosa del genere. L’auto scompare nella nebbia e rimango solo.
Realizzo tutto solo ora, rido di me stesso scuotendo la testa, batto entrambe le mani sulle cosce in segno di risoluzione e mi alzo per vedere tra quanto passa il prossimo. Quando mi rendo conto che l’autobus che ho lasciato andare 25 minuti fa era l’ultimo per le prossime due ore il mio sorriso si trasforma in una risata rumorosa che spezza la nebbia e diventa l’unico suono della strada, del quartiere, della città, del mondo?
Metto il cappuccio e parto a piedi, continuo a ridere per tutto il tragitto, poi l’alba.
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Piacevole racconto “degli equivoci”. C’è del potenziale 🙂
interessante da un punto di vista intensità, ma meno da un punto di vista esecutivo
Molto bello questo racconto!