La “frascata”

Serie: Mediamente in pericolo!


Stavolta bisognava andare a Fondo. Perdonate lo stupido gioco di parole. Fondo è l’ultimo paese della Valchiusella, una valle del Canavese. Eravamo già stati in Valchiusella, in due diverse tranche, alle Guje di Garavot, un punto in cui il fiume Chiusella forma delle piscine naturali, con cascatelle e rocce che diventano improvvisati trampolini per audaci tuffi. Ma per arrivare a Fondo dovevamo attraversare tutta la valle, fino ad impattare con l’impossibilità di proseguire, fino alla fine della civiltà. Il programma era, alla chiusura dell’orario di lavoro serale, salire sulle auto, già cariche degli zaini pronti, ed avviarsi col buio verso la nostra destinazione con l’obiettivo di pernottare lì, in tenda, da qualche parte e la mattina dopo fare il bagno sotto la famosa cascata di Fondo, per poi tornare a Torino giusto in tempo per riprendere il turno al lavoro. Abbastanza folle, no?

Non c’è nulla di più inquietante ed affascinante che guidare di notte, in mezzo ai boschi, sempre più isolati dal mondo. Ricordo che, ad un certo punto, attraversando uno degli ultimi paesini, ci siamo trovati a passare sotto un archetto in mattoni strettissimo, entro cui l’auto passava giusta giusta. E siamo arrivati a Fondo. Se vogliamo chiamarlo comune, questo pugno di case (giusto una decina), ci si chiedeva come facesse a esistere là, in mezzo al nulla. Eppure era fornito di bar, perennemente chiuso, e di una struttura che doveva essere una specie di municipio; nonchè da un cimitero e da una chiesa. Era attraversato, nel mezzo, da un torrentello e le due rive comunicavano attraverso un pittoresco ponticello.

Non c’era un’anima viva quando siamo arrivati noi, intorno alle 23. Per salire verso la cascata siamo passati tra il cimitero e la chiesa, avvolti in un’atmosfera abbastanza tetra, ma lo spirito dissacrante del nostro gruppo rendeva tragicomico ogni spunto di inquietudine o gravosità e non c’era modo e tempo per provare paura, nonostante i tentativi di Ele di rendere le situazioni spettrali attraverso sussulti per tal rumore o tal altra ombra.

Il cammino non era molto impegnativo e, in capo a pochi minuti, abbiamo raggiunto la cascata, fronteggiata da un ponte romano. Il canavese abbonda di ponti romani. All’unanimità, abbiamo deciso, contro ogni ragionevolezza, di accamparci lì, nonostante il rumore assordante della cascata e l’umidità. Ormai avvezzi al montaggio tende, in poco tempo avevamo piazzato il campo e sistemato tutto. Favie si era poi diretto al centro del ponte per accendere un falò, con lo scopo di cucinare i soliti wurstel, al riparo dei muretti laterali del ponte, poichè spirava un venticello dispettoso.

Io e Scilli siamo scesi su una roccia piatta, proprio di fronte alla cascata e ci siamo stesi un po’ lì ad ammirare da vicino quello spettacolo della natura. Tra la cascata e la roccia, una conca di circa 7 o 8 metri di circonferenza, che sarebbe stata un’ottima piscina, la mattina successiva.

Il fuoco era pronto ed il capo, da sopra il ponte, strillava con la sua leggiadra voce, tipo sirena dei pompieri, che era ora di cuocersi, ciascuno, il proprio wurstel. Eravamo io, Scilli, Favie, Ele e Blaco. Nonostante i muretti laterali del ponte, il venticello faceva oscillare le lingue delle fiamme, ora in una direzione, ora in un’altra, col risultato di avere le facce bollenti e wurstel abbrustoliti, oltre che puzzare di fumo. Ma è anche vero che se uno vuole il comfort e i piatti ben cotti va al ristorante, non su uno sperduto ponte romano.

Dopo qualche chiacchiera, resici conto che la temperatura scendeva, abbiamo deciso che era ora di infilarsi in tenda. Io avevo fatto l’arrogante e, per via della mia ritrosia al contatto fisico con altri esseri umani che non siano Nicole Kidman, mi ero portato la tenda per me solo. Blaco e Scilli avrebbero dormito in un’altra tenda e la coppia in un’altra ancora. Beh, mi sono pentito amaramente di questa scelta; il mio sacco a pelo da risparmio senza qualità non reggeva il confronto con le basse temperature umide di quel posto e mi pentivo di non avere Scilli vicino a fare da termosifone umano. Ho patito; la sensazione di impotenza ed inermità di fronte al freddo era simile a quella provata sotto il temporale del Mucrone, ma senza il terrore dettato dagli effetti speciali di quest’ultimo. Era una muta tortura contro la quale non potevo far nulla, non avevo più nulla da indossare poichè, essendo il posto sotto i 1000 metri, avevo sottovalutato la rigidità del freddo che vi si poteva trovare e non avevo abbondato con le coperte. Sentivo la natura che mi stava nuovamente minacciando; non con fulmini, tuoni e vento, ma con la morsa stritolante di quel freddo verso il quale mi sentivo come fossi nudo ed inerme. Se quel mostro, la natura, avesse deciso, per una sua lunatica ed imprevedibile stranezza, di abbassare ulteriormente “la manovella” della temperatura fino ad estremi inusuali ma leciti (la natura può tutto, come dimostrano i fenomeni climatici di crescente intensità), avrei potuto soccombere, lì, su quel ponte. Già, perchè siccome la piazzetta era troppo piccola per farci stare tutte le tende, gli altri avevano piazzato le loro sulla terraferma, mentre io l’avevo messa sul ponte.

Nel “Dialogo della Natura e di un islandese” di Leopardi, il poeta trattava l’argomento di una natura ostica e letale per l’uomo, attraverso le domande che un islandese poneva alla Natura stessa (che aveva le fattezze di un gigante). La Natura spiegava la credenza errata dell’essere umano, ossia che il mondo sia stato fatto a misura di quest’ultimo e per farlo vivere agiatamente; in realtà, proseguiva ad argomentare, non è così, l’uomo è solo uno dei tanti precari passeggeri di questa esistenza ed essa non è stata creata appositamente per lui. Pertanto egli non può esigere nulla dalla Natura.

-Ma allora…a chi giova tutto questo?- Aveva chiesto, disorientato e spaurito, l’islandese.

A quel punto, per tutta risposta, un leone era balzato fuori dalla foresta e lo aveva sbranato.

Pertanto sarei morto per il freddo, quella notte, pensavo. E invece era arrivato il mattino.

Abbiamo chiuso le tende, raccolto la roba e siamo andati verso il bar, per la gioia di Blaco che vive grazie al caffè così come le auto vanno a benzina. Ma il bar era chiuso. Mestamente, abbiamo posato le borse in macchina e ci siamo diretti nuovamente verso la cascata. Erano circa le undici, ma il sole non ne voleva sapere di poggiarsi su quella conca e portarvi un po’ di tepore. L’acqua era gelida come solo i torrenti di montagna sanno esserlo e senza un po’ di sole a scaldare le membra, diventava difficile aver voglia di bagnarsi in quelle fredde acque. Ele, oltretutto, raccontava di soffrire di una particolare sindrome per la quale, l’esposizione prolungata degli arti a temperature molto basse, poteva farli andare in cancrena in breve tempo. Ma lei è controfobica e si pone comunque in situazioni che la espongano a tale rischio.

Dunque, eravamo tutti lì a guardare l’acqua cristallina e poi il sole che lentamente si affacciava sugli angolini in alto, poi l’acqua, poi di nuovo il sole, esasperatamente lento. Mi stava ipnotizzando, quell’acqua trasparente. Mi avvicinavo quasi inconsapevolmente e, ad un certo punto, senza capire come e perchè, scendendo da alcune rocce spioventi, vi avevo immerso le gambe. Dopo alcuni secondi, non sentivo più la circolazione. Gli altri mi consigliavano di risalire o buttarmi e nuotare, ma non rimanere fermo così, perchè non mi avrebbe fatto bene. Dopo qualche timido tentativo di risalire per le rocce spioventi, ho capito che non sarei riuscito a tornare indietro da lì, anche perchè il fondale era molto scivoloso, pertanto mi sono lanciato verso l’acqua gelida, cacciando un urlo selvaggio e nuotando, più che a rana, in maniera simile ad un cane che corre con la coda tra le gambe; ho guadagnato, in pochi secondi, durati un’eternità, la riva opposta. Mentre ero in acqua sentivo gli altri urlare.

-Pazzo Beeeiicss!!!- Urlava Favie.

-Vai Meeeex!- Urlavano Scilli e Blaco.

Ele, aspettando sulla riva, fotograva divertita.

Avevo fatto da apripista. In un lampo, si sono buttati, ad uno ad uno, tutti gli altri. Il migliore è stato Scilli, che nuotava con una faccia terrorizzata, annaspando disperatamente per il terrore di avere un infarto. Stavo morendo dal ridere e per l’enfasi mi sono rituffato. Poi, Ele, stufa di fare la fotografa, si è lanciata anche lei. Siamo rimasti un attimo col fiato sospeso, per via del problema che ci aveva spiegato, ma anche la sua nuotata è filata liscia come l’olio.

Galvanizzati, saremmo rimasti lì a tuffarci tutto il giorno e a fare le flessioni da maschi alpha sulle rocce, ma era ora di ritornare a Torino e vestire i panni degli impiegati mediocri. Come Clark Kent quando non è Superman, noi, quando non eravamo i Mediamente Organizzati, dovevamo prendere quelle sembianze e portare a casa la pagnotta, fino alla prossima escursione.

Tornando in auto, uno Scilli al settimo cielo magnificava la “frascata” che avevamo ammirato e programmava una cena di fine estate. Avevamo tutti il cuore gonfio. Eravamo contenti di essere assieme. Di vivere questa vita. In questo modo.

Serie: Mediamente in pericolo!


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