La gallina che becca

Serie: Morirò d'estate


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: ●«Ma tu mi ami papà? Perché non mi ami papa?» gli urlai contro. Poi sentii come un fuoco che mi saliva lentamente ma dolorosamente su per la gola e vomitai. Cercai di trattenere il vomito con la mano, ma non ci riuscii...●

Ero arrivato a casa da pochi minuti, e in un istante ero stato di nuovo catapultato in quell’inferno che credevo di aver cancellato definitivamente in quei tre giorni al Campo Base.

«Che ingenuo!» pensai.

Come avevo potuto credere che tutta la mia fame d’amore potesse essere colmata magicamente da canti, preghiere e pensieri positivi?

«Sei uno stupido!» mi dissi ad alta voce, guardandomi nello specchio della mia cameretta che ormai sentivo come una prigione, come una sezione a regime speciale 41-bis, dove mi ero autorecluso da innocente.

Mi sdraiai sul letto e mi lasciai avvolgere dal profumo di ammorbidente delle lenzuola nuove e perfettamente stirate.

«Mi crede un ospite» pensai.

Mia madre aveva l’abitudine di mettere sempre lenzuola nuove quando qualcuno veniva a farci visita.

«Non sia mai ci fosse qualche macchia o segno di usura» diceva sempre.

Per lei, un ospite era qualcuno da trattare con rispetto e cura, e mi chiesi se questo riguardo che aveva nei miei confronti fosse positivo o negativo.

Questo mi fece riflettere sul fatto che ad un ospite generalmente si riservano attenzioni che celano un naturale distacco e soprattutto si tende a nascondere ciò che non va, per educazione, ma soprattutto per pudore.

Ma non dovrebbe essere così tra genitori e figli, dove tutto dovrebbe essere più naturale e spontaneo.

Mia madre quindi, mi credeva un ospite da accogliere e non un figlio da amare e comprendere, con tutte le sue debolezze e i suoi difetti?

Mi chiesi se questo fosse il motivo per cui mi sentivo sempre un po’ estraneo in quella casa, come se fossi un visitatore temporaneo e non un membro della famiglia, ma non riuscii a darmi nessuna risposta.

Ero confuso ed esausto e soprattutto pervaso da una sensazione di vergogna, pur essendo consapevole di non avere alcun motivo di cui vergognarmi.

Mi alzai dal letto e cominciai a esplorare la stanza, nonostante la conoscessi perfettamente.

Era una camera piccola, con un armadio e un comodino, ma era pulita e ordinata, proprio come mia madre amava.

Sulla parete c’era un quadro con un paesaggio marino, e sul comodino una sveglia anni 60 con la mitica gallina che becca.

Mi avvicinai al quadro e lo guardai più da vicino. Era un dipinto a olio, con colori vivaci e una luce che sembrava quasi reale.

Mi chiesi chi l’avesse dipinto, e se mia madre l’avesse scelto per la sua bellezza o per qualche altro motivo.

Poi, sentii un rumore provenire dal corridoio. Era mia madre, che stava tornando nella stanza.

Mi voltai verso la porta e la vidi entrare, con un sorriso sul viso.

«Tutto bene?» chiese, guardandomi con curiosità e come se non fosse successo nulla.

Annuii, sentendomi un po’ imbarazzato.

«Sì, tutto bene», dissi, mentendo come probabilmente lei sperava.

Mia madre si avvicinò a me e mi diede una carezza sulla guancia.

«Hai fame? Ho preparato il pranzo» disse.

Era già ora di pranzo. Non mi ero reso conto della velocità con cui il tempo era trascorso, e questo mi sembrò positivo.

«No, grazie. Non ho fame» risposi, scuotendo la testa.

Mia madre mi guardò con preoccupazione.

«Stai bene?» chiese di nuovo.

Annuii, cercando di sorridere. 

«Sì, sto bene!», dissi.

Ma non era vero e lei lo sapeva.

Rimasi in camera, sdraiato sul letto con gli occhi rivolti al soffitto e la testa piena di pensieri.

Sentivo il profumo del cibo, che nonostante la porta chiusa si era diffuso nella stanza. Ma non mi fece venire fame, anzi, mi sentii ancora più vuoto.

Di tanto in tanto, sentivo mio padre che commentava le notizie del telegiornale e mi vennero subito in mente tutti i pranzi e le cene trascorsi negli anni, in rigoroso silenzio, con il sottofondo delle notizie del tg e i commenti di mio padre che improvvisamente si trasformava in esperto di politica, piuttosto che in criminologo, e dall’alto della sua convinzione sembrava sempre giudicare il mondo intero.

Mi chiesi se fosse mai stato felice, se avesse mai provato gioia o soddisfazione nella vita. O se fosse sempre stato così, con la sua faccia scura e il suo sguardo critico.

I ricordi continuavano a fluire nella mia mente, come un fiume in piena.

Mi ricordai di quando ero bambino e mio padre, che faceva il camionista, a volte, mi portava con sé.

Facevamo sempre una piccola sosta, in un bar poco fuori il mio paese, e lì, in compagnia di altri colleghi e clienti casuali si trasformava: battuta pronta, occhi luminosi e una risata contagiosa.

Ma quei momenti erano rari, giusto il tempo di un caffè o di una birra, e poi ritornava il padre freddo e silenzioso che all’epoca mi faceva paura e che oggi mi trasmetteva rabbia.

Sentii mia madre, che ancora una volta, mi chiedeva di pranzare con loro, ma io facevo finta di non sentire.

Non volevo affrontare mio padre e il suo sguardo giudicante.

Volevo solo rimanere lì, sdraiato su quel letto ormai troppo stretto per me, ma la voce di mia madre era insistente, e alla fine mi alzai.

Mio padre era seduto a tavola, con la sua faccia scura e il telecomando in mano, mentre mia madre impiattava la pasta.

Per un momento, il silenzio fu totale.

«Mamma, posso prendermi la sveglia con la gallina che becca?» dissi sedendomi e cercando di interrompere quel silenzio assordante.

Scoppiammo entrambi in una sonora risata.

Con la coda dell’occhio, mi sembrò di vedere un accenno di sorriso anche sul viso di mio padre.

Ma non ne ero certo. Durante tutto il pranzo non mi voltai mai a guardarlo.

Mangiai un po’ di pasta, poi con una scusa andai in bagno, conficcai l’indice e il medio su per la gola e vomitai.

Mentre mi liberavo del cibo, pensai a quanto ero stato stupido a credere che bastava credere in Dio per stare meglio e mi venne in mente il viso di Suor Emma.

Piansi silenziosamente vergognandomi di me stesso, mentre l’acqua del water scorreva, portandosi con il mio vomito e il mio dolore. 

Serie: Morirò d'estate


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Discussioni

  1. Mi ha colpito la sensazione che hai descritto, di sentirsi ospiti nella propria famiglia. Poi, la scena finale mi ha fatto riflettere: quel vomitare il cibo consumato in famiglia, l’ho percepito un po’ come un volersi liberare da qualsiasi legame con loro (con lui, in questo caso). Come un “ripulirsi” o “purificarsi” dal male ricevuto.