La notte in cui chiedemmo scuse alle stelle II

Serie: Desideri


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Seconda e ultima parte

Dopo mezzanotte il vento portò le campane di una chiesa invisibile. Dodici rintocchi, chiodi morbidi. La città non si spense: aumentò il suo splendore inutile. Ma il cielo, paziente da prima di noi, continuò a rigarsi, umile e prodigo.

«Posso farlo atterrare?» chiese la ragazza, e stavolta fu una domanda vera.

«Fallo riposare», risposi con un filo di voce.

Posò il drone vicino al camino. Staccò la batteria. Le sue mani tremavano appena, il tanto che serve per sentirsi vivi. Senza il ronzio, le stelle si ripresero il suono. Forse era solo l’abitudine che se ne andava; forse, quando smettiamo di occupare lo spazio, lo spazio si ricorda di noi e ci restituisce un posto.

L’anziano si alzò, scricchiolando. «Vado a dormire», annunciò. «Sono pieno di luce».

I gemelli lo salutarono con in bocca l’ultimo trancio di pizza. La bambina si addormentò sulla spalla della madre. Il ragazzo che aveva fallito il bacio ci riprovò, e questa volta trovò il bersaglio. Per qualche secondo il mondo si comportò bene.

«E lei?» mi chiese la ragazza, mentre piegavo la coperta. «Ha ottenuto la sua scusa?»

Mi parve di sì, ma non dal cielo, che non ha colpe. Dalla parte di me che crede che la bellezza sia un bene illimitato e gratuito finché qualcuno la guarda davvero.

«Forse. Forse ho ricordato che non dobbiamo sempre chiedere. A volte bisogna restituire».

«E cosa restituisce uno, al cielo?»

Ci pensai. Lasciai che la risposta venisse da lontano, dai desideri lanciati al fiume. «Attenzione», dissi. «Quella intera. Non metà, non quando avanza. E il silenzio giusto, diverso dal tacere».

La ragazza annuì. «Allora spengo anch’io». Mise il telefono in tasca. Restammo un poco a guardare il buio al lavoro. Una stella lenta passò tra due antenne, filo in una cruna.

«Si chiama Marta», disse all’improvviso. «Mia sorella. Lo dico perché, se stanotte dorme, vorrei che qualcuno lo sapesse oltre me».

«Allora lo so anch’io.»

Dal mare arrivò una nuvola, lenta quanto una lettera che tarda. Le luci della città ci entrarono negli occhi in granelli. Scendemmo le scale: la TV a volume alto, il basilico, il ventilatore ostinato nel suo mare. In tasca, i desideri si sistemarono senza spingersi. Non avevo scritto nulla nel taccuino, e mi parve giusto.

Davanti all’ascensore, la ragazza disse: «L’anno prossimo, se siamo qui, rifacciamo la veglia. Ma senza droni».

«Senza droni», ripetei, firmando un patto invisibile.

In casa, aprii la finestra. Dal letto, la stanza prese la forma della notte estiva: lenzuolo leggero, bicchiere d’acqua, libri che non chiedevano, fotografie che avevano smesso da tempo di pretendere somiglianze. Mi infilai sotto il respiro del buio, lasciando socchiusa la persiana perché una riga di cielo mi tenesse il posto.

Prima di chiudere gli occhi arrivò l’ultima scia, quella che compare quando stai per mollare la presa. Non la vidi: la indovinai, come si indovina un sorriso dall’altra parte del telefono. Non chiesi nulla. Dissi grazie, piano, come una scusa. Nel silenzio che seguì, capii che il cielo, povero e gracile abbastanza da rassomigliarci, non ha bisogno della nostra fede: gli basta la nostra attenzione intera, infilata nella notte come un ago che non vuole cucire, ma ricordare il tessuto.

Mi addormentai pensando che una parte delle stelle torna a casa non quando cade, ma quando smettiamo di crederle lontane. Un pensiero semplice, chiaro quanto un bicchiere d’acqua sul comodino, e il più vicino a un desiderio che mi fosse stato concesso da anni.

FINE

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Discussioni

  1. Un finale delicato e poetico, che lascia addosso la sensazione di aver assistito a qualcosa di intimo e prezioso. Mi è piaciuto come le stelle, i gesti semplici e i silenzi diventino un dialogo con se stessi, e come la chiusura sembri più un abbraccio che un punto.

  2. Non c’è riga senza verso, non c’è verso che tu possa farne a meno della poesia, quella vera. L’ultimo rigo, nudo e crudo con quella parola FINE, l’unico che non dà dubbi interpretativi, è un pugno allo stomaco. Forse necessario per ridestarci e riportarci alla triste realtà, orfana della poesia.