La panchina (2)

                                                                                                Premessa

Questo racconto, che ha per titolo La panchina (2), non fa parte di una serie. Si tratta, rispetto al racconto precedente, di due narrazioni distinte, che si possono leggere senza continuità, come scorci di vita separati (manca ancora il terzo), in periodi e contesti diversi. Esiste però, tra una storia e l’altra, un nesso, dovuto non solo  alla presenza di alcuni personaggi che ricompaiono sulla stessa scena del primo racconto, ma anche per la stessa inevitabile connessione che, da nord a sud, da est a ovest, (volenti o nolenti), lega il genere umano. 


Era il 21 di marzo: l’inizio della primavera, la fine di un periodo tragico, tra pandemia, guerra e gelo, che aveva distrutto interi raccolti di ortaggi e frutta. Chi era stato soprattutto carnivoro, era diventato vegetariano. Quando i prezzi delle zucchine, dei carciofi e di tutti i prodotti freschi dell’orto, avevano raggiunto quelli del filetto, molti erano diventati erbivori. Campavano mangiando soprattutto erbe selvatiche. I consumatori più accaniti di carne, che non volevano rassegnarsi a diventare come conigli; in mancanza di un coniglio o di un pollo da fare arrosto o alla  cacciatora, andavano a caccia di tordi. Nessuno di loro disponeva di un fucile: li avevano requisiti tutti; neanche i bracconieri e i cacciatori abituali ne possedevano più. Per catturare gli uccelli usavano qualsiasi cosa venisse ritrovata nelle cantine o nelle soffitte delle case: lazzi, vischio, cerbottane e trappole varie. Qualsiasi cosa  aguzzasse il loro ingegno, per procurarsi un po’ di proteine animali.

Nelle piazze di molte città, la gente (più svantaggiata rispetto a chi stava in campagna), seduta sulle panchine, si consolava, scaldandosi al tiepido sole, che dava inizio alla primavera. 

Giulia e Irina, compagne e amiche inseparabili di panchina, masticavano fave arrosto, come fossero popcorn  o noccioline. Giulia aveva smesso di fumare. Un pacchetto di sigarette costava quanto un chilo di sardine. Meglio due sardine (non di più); almeno per la domenica o qualche altro giorno di festa. Sedute sulla panchina, guardavano oltre la strada, un campo incolto. Irina si chiedeva se per caso fosse ricresciuta la rughetta o  qualche bietola selvatica. Giulia, invece, pensava che forse, in mezzo all’acetosella, poteva esserci anche un po’ di ortica. Cuocendola, quell’erba urticante, perdeva la sua peluria pruriginosa, acquistava un gusto delicato, ma rendeva ben poco, come quantità. In compenso era un concentrato di sali minerali: calcio, ferro, potassio… un ottimo rimedio per il suo sangue un po’ anemico.

Il chiosco dei gelati era chiuso, per carenza di clienti. Lo riaprivano soltanto il fine settimana, per vendere il ghiaccio tritato, colorato con il succo di mirto, di more o di prugnolo selvatico che cresceva in periferia.

Le magnolie, senza togliere niente a nessuno, erano cresciute e rifiorite  di nuovo, con poca pioggia, poco sole e tanti sguardi di ammirazione per la loro bellezza.

Nel bel mezzo di quel panorama a buon mercato, bello come il capolavoro di un artista eccezionale, si era fermata, sul bordo strada, una moto. Il giovane centauro, con l’aspetto di un vichingo, si era tolto il casco, mostrando la sua capigliatura bionda, lunga e riccia, raccolta in un codino scarmigliato. Si era voltato verso le due donne per chiedere un’informazione. Il navigatore satellitare era fuori uso. Giulia aveva inteso male. Aveva capito “Ciao bella gioia” e stizzita, lo aveva ignorato. Che diamine andava cercando e chi credeva di essere quel bellimbusto? Per quanto fosse bello, lei non aveva alcuna intenzione di dargli importanza. Quando lui, con un accento strano, aveva scandito meglio le parole “Via Flavio Gioia”, allora le due donne avevano deciso di avvicinarsi per indicargli da che parte dovesse andare. Lo straniero, però, capiva ben poco. Dopo l’ennesima ripetizione, Irina e Giulia avevano pensato di mostrargli il percorso con un disegno, ma nessuno dei tre, aveva trovato carta e penna. Lui, allora, con il suo linguaggio verbale limitato e qualche espressione gestuale, aveva chiesto a Giulia se potesse accompagnarlo, andando con lui sulla moto. Giulia era rimasta interdetta, pensando di aver capito male. Quando lui era stato ancora più esplicito, lei e la sua amica si erano intese con lo sguardo, pensando che quel tipo fosse un po’ matto. Se non lo era, poteva essere, comunque, malintenzionato. Uno che guidava la moto in modo spericolato. Un serial killer efferato. Come poteva fidarsi? Era un perfetto sconosciuto, quel viso d’angelo, sfacciato. Giulia era rimasta in silenzio ad osservarlo, mentre lui le porgeva un casco, invitandola a salire sulla sua duecento cavalli, bianca. Mentre accennava un inchino, accompagnato da un gesto galante, con il braccio destro, come se fosse stato il principe che invita Cenerentola a un giro di valzer nella  sua reggia. 

Irina l’aveva incoraggiata. Lei aveva un sesto senso, nel riconoscere se in una persona prevalesse la bontà, oppure la malvagità. E sapeva bene che la sua amica aveva bisogno di una scossa; forse un giro in moto l’avrebbe spronata. Da quando aveva divorziato era molto depressa. Era morta sua madre e Ilaria, la sua unica figlia, era dovuta partita per trovare un modesto lavoro, in un lontano paese del nord, freddo e ostile verso i forestieri. Da molto tempo, ormai, Giulia non scherzava più, non sorrideva più e di uscire fuori casa, certi giorni… neanche con la gru. Per convincerla, Irina le preparava una tazza di te molto speciale, con foglie di rovo, fiori di malva, qualche petalo di rosa, un po’ di zucchero e soprattutto ben caldo; soprattutto di conforto umano.

Il ragazzo aspettava, mentre Giulia lo studiava perplessa, impaurita, ma anche un po’ tentata. Quando lui le aveva teso la mano per aiutarla a salire, i loro occhi si erano incrociati più a fondo. Ogni reazione difensiva di lei era svanita, in balia di quello specchio di mare in cui, ormai, era pronta a naufragare. Completamente ammaliata da quel diavolo tentatore, avevano raggiunto zigzagando, via Flavio Gioia, con l’indice destro o sinistro di Giulia puntato in avanti, per indicargli la direzione.

Al numero 3 c’era una casa antica, con un grande portale di legno e un alto muro di cinta che celava l’interno.

Lo straniero aveva le chiavi per entrare, senza dover bussare. L’interno iniziava con un lungo viale alberato e finiva con un pergolato di glicini in fiore e qualche gelsomino profumato. Giulia, se non fosse stata già abbastanza frastornata e con le gambe molli come quelle di una pigotta, le sarebbe bastato annusare quell’aria, per sciogliersi come una granita al sole.

La casa era enorme, di pietra grigia levigata, con qualche persiana aperta e un po’ sgangherata.  Una vecchia costruzione, completamente vuota, abbandonata da chissà quanto tempo. Il baldo giovane l’aveva ereditata dai nonni. La soffitta era diventata una colombaia rumorosa; mentre salivano con prudenza sulla scala ripida, di legno, tarlata, lui ogni tanto la sosteneva. Dall’alto, guardando fuori dalla finestra, avevano ammirato, in lontananza, un’enorme distesa di grano ancora verde. Nella testa di Giulia aveva cominciato a ronzare il verso di una canzone “E brava Giulia e brava Giulia! / viviti la vita che vuoi! / …” Lui a quel punto, l’aveva avvolta con le sue braccia. La musica della canzone era diventata più forte, come se venisse diffusa nella vecchia soffitta,  dalle potenti casse di un impianto stereo. “Brava Giulia e brava Giulia! / Sceglitela! certo che puoi! / …”

Lui l’aveva guardata intensamente, con i suoi occhi color mare chiaro. A quel punto il volume della suoneria del telefono, con la canzone di Vasco Rossi, era diventato così forte che Giulia, distesa sul letto della sua camera, si era svegliata.

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Discussioni

  1. I sogni sono meno importanti della realtà? Sono dell’opinione che siano fondamentali, soprattutto se belli come questo. A volte riescono a dare sensazioni talmente complete che al risveglio non si può che sorridere: sono porte aperte che ci concedono uno scorcio di un’altra vita? Dimensione? Non so dare una risposta, so solo che possono portare luce in un momento buio. Mi è piaciuto ritrovare Giulia ed Irina ancora sedute su quella panchina.

    1. Grazie Micol. Mi fa piacere che tu sia d’ accordo sull’ importanza dei sogni. Quelli notturni che ci aiutano a ristabilire un po’ di equilibrio mentale e ci consentono, a volte, di affrontare le nostre giornate di buon umore. Anche i sogni da svegli ci possono aiutare ad andare avanti e quando ne realizziamo qulcuno, ne abbiamo sempre altri da raggiungere e la voglia di vivere non ci abbandona.

  2. Gli occhi color mare chiaro, una distesa di grano ancora verde, il pergolato di glicine in fiore con qualche gelsomino profumato… Ho visto colori e sentito profumi, come se avessi visto tutto da vicino, complimenti per la tua capacità descrittiva. Una domanda: ma veramente le ortiche cotte si possono mangiare?

    1. Speravo tanto in un tuo commento e ti ringrazio. Inventiva letteraria a parte, io consumo davvero le ortiche, in vari modi. Sono un ottimo integratore di molti sali minerali. Parola di naturopata.