
La prima birra
Serie: L'ultima birra insieme
- Episodio 1: La prima birra
- Episodio 2: La seconda birra
- Episodio 3: L’ultima birra
STAGIONE 1
Questa storia della birra mia madre me l’ha raccontata spesso.
Si narra che io fossi già alcolica, che è diverso dall’essere un’alcolizzata, è proprio essere avvezzi al gusto dell’alcool e non alla ricerca del suo effetto.
Così, con le braccia a salsicciotto dei miei precoci sei mesi, a tavola rubavo, non so neanche io come, il bicchiere pieno di birra di mia madre, e con una soddisfazione piena e totale, mi portavo alle labbra quello che credo mi sembrasse un nettare gustoso da conquistare.
Mamma ai quei tempi beveva l’Adelscott, una birra rossa e ambrata, dal retrogusto dolce e avvolgente e lei mi diceva che aveva il colore dei miei capelli, un po’ rossi e un po’ biondi e da che ne ricordi io, è sempre e solo così che la birra mi piace.
Mi soddisfa il fatto che ricorda i miei capelli e che dentro ci posso vedere i miei riflessi, come fosse il pelo di una volpe lucidissima al sole e che si può bere.
Mi conquista al palato il malto e quel suo sentore aromatico o vedere la schiuma che monta briosa, come fosse la spuma del mare inzuppata in un tramonto arancione.
“Ma è vero che la birra fa bene ai capelli?”
Simona me lo chiede diretta, come se, con la sua tinta rosso fuoco in posa sulla testa, avesse già fretta di capire come porre rimedio a quel disastro e dare nuovo nutrimento a quattro capelli che sembrano scopa di saggina.
“E che ne so.”
Sbuffo irritata, lontana dalla piastra a vapore che sto passando sulle ciocche di Emanuela, pensieri lontanissimi i miei in cui, nei mesi a venire, le birre si faranno sporadiche e proibite.
“Ma scusa è, sei tu la parrucchiera, mica io.”
Il vapore mi accarezza la pelle, vorrei già essere a casa, da lui, a dirgli tutto.
“Allora probabilmente si, fa bene. Forse gli schiarisce pure. La bionda dico.”
“E dici che su questo bel ramato funziona?”
“Simona, manco hai finito di farti una nuova tinta che pensi al dopo? E statti tranquilla.”
Simona si guarda allo specchio, ci pensa su a quella sua immagine ricoperta di carta stagnola, prende il cellulare per leggere tutti i benefici della birra su Wikipedia, apre video tutorial su YouTube e fa girare la sedia come una trottola nelle mani di un bambino, si ferma esausta solo qualche secondo dopo.
“E se intanto ce la bevessimo?”
“Ma cosa?”
“La birra! Dai chiamate Paolo che si ordina per tutti.”
Adesso ogni cliente si gira verso di lei, vogliosa di birra e di dar una sbirciata ai pettorali di Paolo sotto la camicia, ma chi lo sente quello se continuo a chiedergli un servizio che non fa.
“Lo sai che non porta nulla fuori dal bar.”
“Se glielo chiedi tu viene.”
Con tutti i loro occhi puntati addosso, prendo il cellulare e lo chiamo.
“Paolo sono io.”
“Anita ti dico già subito no, sto incasinato e non ho neppure personale oggi. No.”
“Per favore.”
“Al diavolo, cosa vuoi?”
“Otto birre belle fredde.”
“E per te la solita?”
Esito, stranita.
“Sì, la solita.”
“Dammi dieci minuti.”
“Grazie.”
Poi con la certezza delle birre e dei pettorali di Paolo in arrivo, i phon hanno ripreso a soffiare e le piastre a lisciare, ogni donna è tornata con prepotenza nei suoi pensieri o in chiacchere a basse voce con la compagna di poltrona, io stordita nelle mie nausee, respiro l’odore chimico delle tinte e ad ogni sospiro la gola sembra un po’ più chiusa, ci sono sul pavimento ciocche e pezzi di capelli simili a schizzi di sangue e gli specchi lucidi e pieni di luci danno di noi riflessi spettrali, fantasmi che provano a farsi belli quasi inutilmente.
Ho le occhiaie profonde e violacee, bordate di un verde che sembra simile a quello del gas appena accesso, e sono solchi di sonno e ansia, di tutte queste notti in cui con Lorenzo accanto, ignaro e addormentato, ho proiettato ogni possibile scenario sul soffitto bianco e limpido, sporcandolo di me, con i miei sensi di colpa o con la follia insana di una felicità che, per quanto possa provare, non so dove possa andare a costruirsi e solidificarsi.
Lo tengo. Lo butto. Glielo dico. Non lo dico a nessuno. Andrò avanti da sola. Saremo felici insieme.
Tutte possibilità che nell’arco di pochi giorni avevo provato a cucirmi addosso, come fossero vestiti nel camerino della mia vita e bastasse scegliere quello più adatto a me.
In tutti però mi sembrava di scontarmi con la difficoltà della realizzazione, ogni scenario poteva aprirmi ad un cambiamento, ad una scelta, mentre io e Lorenzo fino adesso siamo rimasti in una zona confortevole e grigia, una situazione di stallo, né avanti né indietro, ma che ci permette, almeno apparentemente, di non perdere quel poco che ci è rimasto.
Alla fine credo sia questo la vita, anche, rimanere fermi, annidarsi in una stabilità senza andare ad indagare se sia giusta o meno, vivi, ti alzi, hai i tuoi tormenti, ma non per questo ogni giorno decidi di mandare all’aria ogni tua scelta, ti vesti, fai la persona normale e cerchi di vivere quello che hai.
Adesso invece mi tocca scegliere, è necessario, è qualcosa che c’è e può cambiare me o lui o noi, e solo io ho questa responsabilità fino infondo, questo peso che fermenta come lievito, che come la schiuma della birra sale fino a quando il bicchiere non è al suo finale.
Proprio davanti ad un birra io e Lorenzo ci siamo conosciuti.
“La birra del bucaniere! Ma dove l’hai trovata?”
“Mi scusi?”
Era ora di pranzo in mezzo al parco con il sole incerto e caldo di marzo, avevo lo spolverino sulle spalle e bevevo avida dalla bottiglia, pensavo a mia madre che mi avrebbe sgridato vedendomi così, che fin da piccola bevevo in un bicchiere e proprio ora da grande dovevo dimenticarmi le buone maniere, e sorridevo, leggera, di quei sorrisi di quando non hai che pensieri soffici e innocui, di quei pensieri che mica ti cambiano la vita.
E lui all’improvviso è entrato nel mio campo visivo.
“Scusi lei, non mi sono neanche presentato. Lorenzo, piacere. Chiedevo, se posso darti del tu, dov’è che hai preso quella birra? È la mia preferita ma non la trovo mai da nessuna parte.”
Era carino, goffo, di una bellezza non certo pronunciata e per questo ne veniva fuori un’immagine adorabile.
“Anita, piacere. Appena esci dal parco, sulla destra, c’è un vicolo stretto e infondo c’è un piccolo negozietto, vecchio ormai, che vende solo birra, lì di sicuro la trovi.”
Siamo rimasti in silenzio per qualche secondo.
“Grazie.”
“Prego.”
E cinque bottiglie di birra e cinque appuntamenti più tardi, stavamo già insieme, ed era così ad ogni anniversario, niente vino, solo due bicchieri di birra e noi due.
A trent’anni la vita dei venti sembra qualcosa di così lontano e irraggiungibile, come se fosse realmente inconcepibile poter esser stati così leggeri e folli, così pronti ad accogliere tutto, a farsi travolgere da ogni incontro e a decidere in pochi istanti cosa sia e chi, l’amore.
“Ohi, Anita! La birra.”
“Eh?”
Paolo mi guarda perplesso, io nello specchio lo vedo appoggiarmi una bottiglia ghiacciata sulla spalla e rabbrividisco, con lui non è di certo la prima volta.
“Ah sì, grazie.”
“Ma che hai oggi?”
“Sono solo stanca, non dormo bene.”
“Dai bevi.”
“Più tardi, adesso vado a preparare il colore per quella pettegola della signora Fucicchi.”
“Ancora lei? Quella è una rompipalle di prima categoria. Al bar è riuscita a farmi cambiare sei volte il bicchiere.”
“Adesso si è messa in testa che vuole le ciocche rosa, come le ragazzine.”
Ridiamo, con Paolo spesso torno leggera, come quando ero ragazza, forse per questo l’ho trovato e forse per questo lui mi ha cercato.
“Senti, ma se sei così stanca, in chiusura vengo a farti un massaggio.”
“Devo tornare a casa presto stasera.”
“Solo pochi minuti, giuro!”
“Non accetti mai un no. Vai alla cassa che Daniela ti paga per le birre.”
“Offro io.”
“Anche stavolta?”
“Certo, ci vediamo dopo. Ciao belle signore, vi lascio in buone mani.”
Se ne va via, con la sua camicia bianca e aderente sotto gli occhi famelici di ogni cliente, mentre qualcun’altra guarda veloce con sospetto me.
Anche Paolo, a seconda della scelta che faccio, è qualcosa che posso perdere, poi Simona lanciando un urlo acuto mi distrae e la raggiungo.
“Sta roba brucia!”
“E che te credi, è roba chimica. Dai vatti a sciacquare che Genny è pronta per farti lo shampoo.”
Non lo dico a nessuno che avevo superato il tempo di posa da oltre dieci minuti, alcune teste e alcuni pensieri, sarebbero solo da sciogliere nell’ammoniaca.
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