La sentenza

Serie: Anatomia sepolcrale di un sogno


Durante l'incontro con il direttore si profila la possibilità di un approfondimento del materiale inedito del poeta, che però non se la sente di consegnarlo, mentre il direttore prima di andare se ne impossessa. Qualche giorno dopo si rifà vivo per invitare entrambi a pranzo, la domenica seguente.

«Ero contento ma frastornato. Temevo che Edo avesse capito male riguardo all’invito a pranzo domenicale dal direttore, e poi mi interessava sapere quale dei miei appunti di versi avrebbe preferito, ma lui continuava a gesticolare e a ripetere all’infinito gli stessi passaggi farseschi della breve telefonata col direttore, come se al momento non esistesse altro, nemmeno i piatti sporchi, la pioggia che picchiava sulla finestra e nemmeno più io. Era così infiammato dalle sue parole, da non ascoltarmi e guardarmi più. Come se non ci fossi. Pensava ai pantaloni e alla camicia che avrebbe indossato domenica, come a un abito originale e moderno che poteva prestarmi per l’occasione del pranzo dal direttore, in modo da rendermi presentabile e adeguato al mio spessore artistico, come alla straordinarietà dell’evento. Io cercavo di calmarlo e di capire meglio, mi sembrava tutto troppo eccessivo e improvviso: «Per favore, Edo, cerca di rilassarti. Vorrei sapere se il direttore ti ha parlato di uno scritto in particolare. La mia cartellina era piena di spazzatura, di robaccia, insomma; i testi finiti erano pochi, alcuni terrificanti, come altri dalle rime incrociate, dovresti ricordarlo.»

«Lui non mi ha parlato dei tuoi scritti finiti o infiniti o incompleti, ma soltanto di dinamite, di un evento fenomenico che appartiene a un altro livello di percezione, che trascende ogni tipo di dualismo dialettico e che forse nessuno di noi due è in grado di cogliere, quanto meno fino a domani, quando a tavola, durante il pranzo, il direttore ci spiegherà nei dettagli le dinamiche estetiche della sua analisi e del suo resoconto esplosivo. Tra l’altro, dimenticavo, avrai dedicate cinque pagine centrali del nuovo numero, con i pareri di un grosso critico francese. Secondo il direttore saresti un esponente raro dell’ermetismo lirico, capisci? Mi ha detto che ti darà altre informazioni importanti relative al movimento, come alla sua dimensione storica e ideologica – come saprai, in un movimento letterario di tale portata, l’una non può prescindere dall’altra – e intanto ci raccomanda la massima puntualità per domenica, scusandosi, poco prima di attaccare, del suo gesto di sottrazione della tua cartellina, dicendomi che non poteva farne a meno. Capisci, Stanislao? Non vedeva l’ora di leggerti, ecco perché ha tenuto con sé il tuo materiale contravvenendo ai nostri accordi. Lo avevo detto che il suo gesto prometteva del bene e tu che non volevi credermi, ragazzaccio!»

«Rimasi di stucco. Edo camminava avanti e indietro nella cucina, come un invasato, mentre io lo fissavo con stupore e con una grande compassione. Non riuscivo a spiegarmi, tra le altre cose, perché gioisse per la pubblicazione e la beatificazione – e non esagero – dei miei versi, nemmeno fossero i suoi, poi. La sua esaltazione in parte mi imbarazzava, dall’altra mi insospettiva, non ve lo nascondo, amici, come il fatto che Edo stava scrivendo qualcosina in versi, poco prima della telefonata del direttore, e che di colpo, una volta ritornato in cucina, mentre mi parlava, aveva preso il foglio e lo aveva strappato. »

«Perché?» gli feci, e lui: «Oh, è soltanto robetta. Adesso ho capito che la poesia non fa per me. Era giusto che arrivasse, prima o poi, una conferma del genere. In fondo la telefonata del direttore mi ha liberato dalle ombre dello stentare; dal fatto di aspettare mesi per un debole consenso o per un filo illusorio di ispirazione posticcia; per un forse, un vedremo, un dipende o non saprei. Che parole terrificanti. Mai un tipo sincero che ti gridi: incapace, scribacchino, fallito, ignorante, ma giusto un parere velato, tiepido, malaticcio, il giusto mezzo tra il non deluderti e il non rincuorarti, e intanto tu continui a lavorare supportato dalla parolina di chi quel pomeriggio era di buon umore, quando ti ha sussurrato: «Credo che un buon equilibrio linguistico si potrebbe ottenere, col tempo, naturalmente, non lo escluderei…» ma intanto passano mesi. Lo scritto comincia a perdere la forza e l’efficacia delle parole che lo avevano sostenuto nei primi tempi, e ritorna ad attorcigliarsi nelle sue ombre e nel labirinto dei suoi limiti, a essere descritto e insieme trafitto da se stesso, come un romanzetto disastrato che non sarebbe mai stato letto, e per questa ragione non meritevole di venire alla luce, ma solo della pace abissale del suo fondale di morte, lo stesso velluto nero delle sue origini, Stanislao. A pettinarsi come una donna mai amata, che si preparara per una festa a cui non è stata invitata. Ma poi, arrivano i tuoi quadernacci disordinati, e il suo sguardo, amici, il suo sguardo che cambiava, con la luce grigia e arancione del piccolo bar della ferrovia, mentre lui si faceva estatico, vago, fino a qualche istante prima del furto sublime dei tuoi versi, che declamerà esplosivi come dinamite, e allora, lo dico con la massima serenità, che per la tua dinamite ci sarà sempre dello spazio, perché ogni cosa che tu scriverai, da ora in avanti sarà infiammata dalle stesse parole di elogio del direttore. Non hai più scampo, Stain. Ormai sei segnato! Dovrai rassegnarti.»

«Che cosa stavi scrivendo sul foglio che hai stracciato?» chiesi a Edo, quando riprese fiato, e lui: «Ti ripeto, nulla di importante. Si trattava della lista della spesa per domani, ma dal momento che siamo invitati a pranzo dal direttore, non serviva più e l’ho strappata.» Edo si sedette da bravo al suo posto, chiuse gli occhi e tacque. Anche io mi ritirai in un profondo silenzio, pieno di tristezza e di fantasmi. Cominciavo a provare una serie di sentimenti contrastanti per lui, che spaziavano tra la tenerezza, l’ammirazione e la pietà. Le sue parole, pensavo, come le sue vecchie poesie, avevano preso una direzione insolita, sperando forse di ritrovare una loro luce insulare in qualche altro luogo o digressione del suo immaginario, ma nel frattempo si dedicavano a me, come se fossi un nipote difficile – come mi aveva presentato con orgoglio – e un filo di disagio – ai colleghi attoniti della Polfer: una vittima sacrificale della sua parte artistica incompiuta e ormai disillusa, pensai.»

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Discussioni

  1. “una vittima sacrificale della sua parte artistica incompiuta e ormai disillusa”… è esattamente l’immagine che ho percepito per l’intera durata dell’episodio, sebbene non avrei mai saputo descriverla in modo altrettanto efficace, anzi. Una percezione ” a pelle” che con meraviglia ho ritrovato proprio in questa espressione. Edo ha perso i confini, non è più in gradi di discernere tra se stesso e Stanislao. A tratti sembra cercare una rivincita per se stesso, a tratto soffoca il proprio ego per fare posto al ragazzo…ne esce un personaggio conturbante, a sorpresa, perchè inizialmente mi era apparso sotto tutt’altra luce. Credo stia segando profondamente l’animo di Stain, quando la storia verterà di nuovo al presente, credo ritroveremo profonde tracce di questo passaggio.

    1. Ciao, Irene. Hai colto nel sacrificio uno dei cardini che accompagnano e costellano questa singolare esperienza narrativa, dove non sono mai le cose che accadono a dettare le loro leggi, le regole del gioco, ma solo quelle solo in parte accadute, o appena affiorate alla memoria per una rivelazione nebbiosa, appena percepibile, senza mai una certezza assoluta “della pena” della loro consistenza e credibilità.
      L’atto sacrificale è il comune denominatore che interessa tutti gli elementi in gioco, sempre protesi verso una sorta di compimento, di tensione verso un abisso che dovrebbe rappresentare una terraferma, un approdo soleggiato, col giusto filo di vento, quando il realtà non lo è. Tutto è quindi parte di un rituale di espiazione, dove qualcosa di profondo e di celato deve in qualche modo riaffiorare alla coscienza di uno dei personaggi, attraverso una moltitudine astratta di più testimoni. Stain ed Edo in questo momento conducono il gioco dalla loro parte, come elementi radioattivi di un processo entropico già in atto, dove tutto ritroverà un suo senso, o forse un suo dissenso – giusto per restare nel tema –, in una particolare zona dello sviluppo catartico dell’insieme. Un grazie sentito del tuo ascolto e delle tue preziose riflessioni.

    1. Anche a me ha colpito molto. Ha rappresentato una sorta di rivelazione visionaria e insieme misteriosa, che sembra non appartenere alla storia, eppure rappresentarne il nucleo, se non la zona del pericardio. Grazie ancora.

  2. Caro Luigi, ci stai tenendo sulle spine 🙂
    Questo pranzo non arriva mai, così come non arriva la conclusione della lunga narrazione dei fatti come riportata dal Poeta agli amici di vecchia data. In corso c’è una cena, altrettanto misteriosa. La tua capacità narrativa sta nell’avercela quasi fatta dimenticare. Come fosse un romanzo nel romanzo. D’altronde, i tuoi testi vanno sempre letti con la giusta attenzione e ben aggrappati a quella corda che ci porta da un lato all’altro.

  3. “La sua esaltazione in parte mi imbarazzava, dall’altra mi insospettiva, non ve lo nascondo”
    Sinceramente, questa esaltazione plateale, insospettisce anche me, tanto quanto il contenuto di tutti quei foglietti scritti e poi stracciati.

  4. “A pettinarsi come una donna mai amata, che si preparara per una festa a cui non è stata invitata.”
    Mi ha colpito molto questa parte centrale del racconto in cui ti soffermi ad analizzare, attraverso il pensiero del Poeta, il sentimento di frustrazione che ci attanaglia quando scriviamo e ci rendiamo conto di non essere letti se non in maniera superficiale. E poi, all’improvviso, qualcuno ce la fa, senza arrancare, semplicemente per la sua naturale bravura. Le parole di Edo fanno ping pong con i pensieri del Poeta. L’uno parla, tantissimo, troppo; l’altro pensa. Hai costruito un dialogo davvero curioso che ufficialmente è un monologo anche se nelle nostre teste di lettori, gli interlocutori sembrerebbero due.

    1. Ciao, Cristiana. Il cuore dell’episodio è proprio lì, nel punto cruciale dove lo hai individuato. Sentirsi messi all’angolo dalla propria natura, dal senso che diamo alle cose finite o filtrate dal nostro desiderio di raccontarle, di restituirle a una dimensione parallela, forse unica, trasversale, come se la realtà cominciasse solo nel punto in cui sentiamo e sappiamo di immaginarla, rendendola parte di un nostro riflesso, di un ultimo respiro, del filo di un aquilone perduto dalla mano del bambino paralizzato. Ma a volte la penna non scrive e la carta finisce sul più bello, allo stesso modo l’amore per le proprie parole, se non per la propria vita attraverso le quali smuoverle dal loro sonno, dal torpore secolare che le ha ibernate nella loro perfezione di inesistenza e di libertà.
      Il viso della donna allo specchio, quando solleva il pettine, ricorda che ormai è troppo tardi per tutto, avrà sbavato anche il rossetto sul labbro inferiore, fino a sporcare un dente. Non basterà la sua poca saliva sul fazzoletto per salvare il bianco della camicetta dal sangue della sua solitudine, che in fondo è la parte più preziosa a rappresentarla, tutto quello che ha, la tenerezza del suo decoro.
      Si è fuori tempo massimo, fuori regola, eppure si è ancora in gioco. In fondo sarà sempre il Poeta a dettare le sue regole di dannazione e di maledizione, che filtrate dallo sguardo enigmatico di Edo, porteranno avanti questa fase ancora nebbiosa di estradizione, dove nulla è come sembra e dove tutto, per un misterioso incantamento, potrebbe non esserci mai stato, chissà, ma avere ancora un suo significato, una sua verità.
      Grazie dell’attenzione e della dedizione all’episodio e alla serie. A presto.

  5. Il testo è scritto con una prosa ricca e densa, che esplora con sensibilità e profondità psicologica il rapporto ambiguo e complesso tra i due personaggi. La scrittura è vivace e ben ritmata, con dialoghi incisivi. Solo a tratti noto una sovrabbondanza descrittiva che potrebbe essere asciugata per migliorare la fluidità. Aspetto di leggere il seguito.

    1. Ciao. Ti ringrazio del tuo commento. Non sono testi definitivi ma prove in corso di approfondimento, ma nello stesso tempo sono scritti che ho sotto mano da diverso tempo e sui quali ho comunque ragionato e fatto le mie valutazioni. Di sicuro saranno interessati da opportuni ridimensionamenti in una fase più avanzata. Non sono quindi progetti chiusi o blindati. Ma in relazione alla sovrabbondanza che tu avverti, credo che sia un tratto peculiare della mia voce e delle mie scelte stilistiche. Non penso che sia relata a una questione “additiva” ma di approccio sensibile alla densità, all’uso del pensiero, delle dinamiche, dei tempi, delle sensazioni delle singole inquadrature e dei prospetti dimensionali dove la lingua si articola e si muove – della mia visone di gioco, per dirla in soldoni, su cui vi è poco da fare, purtroppo. Non credo che sottraendo qualcosa avresti una sensazione di appagamento (ne parlammo anche in relazione a un altro episodio in cui mi desti lo stesso consiglio). È chiaro che secondo un prospetto di editing si potrebbe ridurre sempre tantissimo, ma in questa mia fase di ricerca non lo avverto un elemento prioritario. Ti ringrazio in ogni caso della tua visione su cui rifletterò, come faccio sempre quando mi confronto con altri sguardi.
      Un saluto.

      1. Ti capisco anche io sono eccessivo (spesso). Ho imparato proprio durante la fase di editing ad asciugare il testo. Chi mi aiuta nella revisione mi dice che un testo troppo “abbondante” rischia di annoiare il lettore e pare che a me capiti spesso (almeno a sentire lei). Hai ovviamente ragione che in questa fase della scrittura tu non debba necessariamente limitarti e quindi vai di inchiostro.