La stretta di mano

C’è un fantasma nella mia casa. Fin qui, penserete, nulla di nuovo: i fantasmi abbondano nella narrativa umana, non è certo una novità sotto il sole – e nemmeno sotto la luna piena e in questo caso parleremmo di un licantropo non di uno spirito perso e maledetto.

Ma da quando sono rimasto solo, qui, nella mia casa, hanno cominciato ad accadere cose strane. Rumori inquietanti, silenzi ancora più sinistri, e un centro che sprofonda, lentamente ma inesorabilmente, nell’abisso.

Avrei anche voluto darmi alla politica, lo ammetto. Ma per motivi personali mi sono sempre ritirato, rimpicciolito come un caffè servito al bar. Ristretto. In questi tempi di guerra, più ne ordini e più sembra rimpicciolirsi. L’altro giorno mi hanno servito soltanto la tazzina – due euro. Ho chiesto se almeno potevo portarla a casa, ma mi hanno risposto di no: il caffè andava bevuto lì.

Ho fissato il fondo della tazzina: forse c’era solo una minuscola macchia, persa in profondità.

Ho paura. Ho paura del fantasma che abita casa mia, della guerra, e anche di tutti gli altri fantasmi che si aggirano – visibili o meno. Stiamo diventando tutti dei fantasmi, in fondo: veli di Maya che danzano, con o senza veli, una danza del ventre surreale e stanca e non si riesce mai a vedere l’ombelico o la luce in fondo.

Maya, forse, non ne sa nulla. Danza allegra e balla da sola.

Ogni notte prego: grandi guru indiani, santi buddhisti, chiunque possa ascoltarmi. Prego che mi portino l’eutanasia o almeno dei funghi magici per fuggire da questa realtà diventata invivibile. O forse è proprio questa la realtà: un velo stretto e grigio che soffoca.

Fatto sta che quel fantasma, quello di casa mia, ieri sera ha passato il limite. Erano le nove e quarantaquattro. Sedevo al computer, impegnato a scrivere o a eliminare vecchie cartelle e spam. All’improvviso ho sentito un nodo alla gola, come dita che si chiudevano attorno al mio collo.

Sono rimasto immobile. Poi, lentamente, il respiro ha cominciato a mancarmi. Una mano invisibile mi stringeva la gola, eppure non c’era nessuno. Le vene si comprimevano, le arterie pulsavano gonfie.

Mi sono alzato in preda al panico cercando di liberarmi da questa stratta invisibile ma non riuscivo a liberarmi. Non vedevo nulla e non riuscivo a toccare nulla. Nessuna mano. Nessun volto. Solo il vuoto infinito delle pareti che avevo davanti a me, da sempre.

Forse era mio padre. Forse. Forse la parete da sfondare era ancora e ancora mio padre e la mia vita.

Alla fine mi sono ritrovato in ginocchio, stremato, a cercare aria. Aria. Aria. Ma non c’è più nessuno che stenda una mano per aiutarmi a risalire.

Tutto  quello che vedo è il velo di Maya. Forse è proprio lui a stringermi, ogni tanto. Forse qualcuno – o qualcosa – vuole ricordarmi che la solitudine gioca brutti scherzi. E che, a volte, può anche uccidere. A volte. O forse è proprio lei il killer da denunciare. Ci sono stati troppi omicidi ultimamente. Morti sospette. E per mano di chi?  Forse se ricominciassi a indagare?

Ma ormai sembra una condanna che non merito. Una maledizione da cui nessuno riesce a liberarmi. È la casa a essere posseduta dalle energie del passato da cui non posso fuggire se resto dentro queste mura e la mia potrà essere una sola sorte diversa da quella di un successo o un destino qualunque. 

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