
La voce di una sirena colma di pietà pt.3 (FINALE)
Serie: Personalissimo buio
- Episodio 1: La voce di una sirena colma di pietà pt.3 (FINALE)
- Episodio 2: Quel posto che cresce all’incontrario
- Episodio 3: Accordi
- Episodio 4: Distributori di senso di colpa
- Episodio 5: La voce di una sirena colma di pietà pt.1
- Episodio 6: La voce di una sirena colma di pietà pt.2
STAGIONE 1
L’orologio sul muro della corsia diceva che erano le 17:06. L’infermiera passò nella stanza dove si trovava Alex, intubato da diciassette giorni.
Spesso il personale sanitario, per tanti motivi, molti anche buoni, era brusco nei modi. La gentilezza ed educazione erano prefabbricate, affettate, finte, esasperate nei suoni mentre tradite dai gesti: veloci, efficienti, quando non barbarici.
C’erano necessità da soddisfare, ed uno dei cari dei ricoverati, pur vedendosi attorno tutta questa… “umanità artificiosa” che si aggiungeva al dolore, al disagio, all’angoscia, alla disperazione, in fin dei conti … la comprendeva. Facevano il loro lavoro, e bisognava anche esser loro grati.
Però quell’infermiera, inconsciamente, poco prima di arrivare alla camera successiva con il suo carrello delle medicazioni, rallentò la sua spinta che era – come sempre – erculea, muscolare. Non voleva fare forti rumori.
Federica, la mamma di Alex, si era sopita. Stava sulla sediola di latta verde arrugginita e la parte superiore del corpo si era stesa di fianco al figlio, mentre le macchine continuavano il loro suono ritmico, tristemente costante. Immutato da giorni.
L’infermiera non voleva svegliarla. Alle orecchie di Alex si potevano vedere due vecchi auricolari col loro cavetto; anche soffuso, il metal amato dal ragazzo si poteva sentire quando ci si avvicinava per cambiargli le medicazioni e rifargli il letto.
La madre aveva pregato infermieri e medici che glielo concedessero. Suo figlio pare le avesse detto, mille volte, scherzando con il suo black humour: “mà, se vado in coma, te mettimi questo album qua in loop nelle orecchie. Vedrai che mi sveglio”.
Pare l’avesse detto anche alla sua ex-fidanzata.
Lei l’aveva chiesto in lacrime a tutti questo favore, persino al primario, ed alla fine tutto il personale aveva ceduto alla richiesta balzana. C’era qualcosa nella dignitosa e composta tristezza della donna attempata, in quelle lacrime che non facevano che scendere; anche ora stavano seccando nelle sue occhiaie annerite mentre dormiva, sfinita, ma non c’era mai un urlo scomposto, mai un grido, solo due occhi glaciali che imponevano rispetto.
E questo ricevevano. Tutto l’ospedale rispettava quella donna e le sue volontà, umili, dignitose e tristi.
Purtroppo, però, erano giorni che quell’album suonava in loop dal suo cellulare, nessun miglioramento concreto pareva scorgersi all’orizzonte.
«Mi scuzi… Alex Ferrero?».
«Camera sette, ma lei chi sarebbe?».
L’uomo di fronte allo sportello della reception di Medicina si strinse nelle spalle, imbarazzato, ficcò ancora di più le mani in tasca. Con la sinistra tirò fuori il cellulare a metà e, di soppiatto, fece una ricerca su Google.
«Zio… Sono suo zio», le zeta gli uscirono in modo strampalato, aveva un forte accento. Sicuramente non era italiano.
«Va bene, c’è la madre lì. L’orario di visita termina alle 18».
«Grazzi…».
L’uomo si incamminò nel corridoio dopo aver spinto il maniglione per entrare in corsia, cercò di non gettare lo sguardo in nessuna delle camere aperte e di tenere la testa bassa, si rincalcava il berretto da pescatore su un grosso chignon arruffato di capelli e stava chiuso in una giacchetta sintetica anonima da discount.
Una catena pendeva dai jeans strappati e gli stivali a punta sotto l’orlo bootcut tradivano una certa eccentricità malcelata.
Appena lesse il numero sette su una placchetta, schivò un’infermiera in uscita dalla camera, si sporse in modo imbarazzato e da dietro gli occhiali scuri vide che la mamma si era svegliata.
La donna si terse alcune nuove lacrime e si guardò attorno spaesata, notò l’uomo che la salutò con un cenno. Stava armeggiando col cellulare.
«Buona sera, lei cerca…?».
«Bonasera ma’am, I’m Gabe… Sono Gabe, amico di Alex».
«Non sapevo che Alex avesse un amico così… grande», provò a sorridere ma non ci riuscì.
«Ex-cusi, mio italiano molto brutto… Conosciuti in rehab».
La donna lo guardava, ma non capiva.
Gabe prese una sedia, le si mise goffamente vicino.
Cercava di tradurre frasi semplici al volo, ma sapeva di suonare strano. Si sentiva un povero coglione, ma dopo essere uscito anche lui dalla clinica aveva bisogno di sentire Alex ed in qualche modo aveva scoperto dell’incidente e dell’ospedale dove era ricoverato.
Dopo aver parlato con lui, aveva conosciuto un momento di creatività rinnovata, si era sentito libero da un freddo cinismo che lo aveva attanagliato per moltissimo tempo, aveva scritto della buona musica ed aveva persino richiamato suo figlio.
Nella sua testa, era tutto grazie a quella chiacchierata notturna. Ed anche a tutte le altre, avute sia prima che dopo quella, proprio con Alex.
«Madam, I’m… Dispiace tanto. Come sta?».
«Tutto sommato… Poteva andare peggio. Non è morto, no?», fallì un altro sorriso, «Poteva rimanere paralizzato, invece no. Però ha avuto qualche secondo di ipossia cerebrale… Lo stronzo che l’ha preso almeno ha chiamato l’ambulanza e… lo hanno preso per i capelli. Dopo qualche giorno di coma farmacologico sembrava migliorare, ma alla fine l’hanno lasciato ancora intubato. Il corpo sta guarendo ma… abbiamo, tanta… paura…», le era uscito un rapido fiume di parole, uno sfogo momentaneo, era riuscita a sciorinare le informazioni come se non riguardassero suo figlio, come se rievocasse poche nozioni carpite leggendo una cartella clinica, ma poi eruppe nell’ennesimo pianto.
Stavolta non era sola con le sue lacrime e quindi Gabe la accolse goffamente tra le braccia in quel suo impeto, provò a consolarla con una mescolanza di parole in due lingue diverse.
Non aveva compreso le parole della signora quasi per nulla, ma aveva capito tutto comunque.
Mentre la donna piangeva, lo sguardo di Gabe si posò sul corpo immoto dell’amico, il rumore delle macchine ed il respiro artificiale della CPAP che pompava aria nei tubi lo faceva stare male, ma mentre guardava notò le auricolari, sentì una musica che riconobbe.
Quando Federica si riprese, le disse:
«Signora… Io vorrei…», scosse la testa e cominciò a scrivere sul cellulare, la traduzione simultanea dall’inglese, con tanto di sintetizzatore dalla voce metallica e nasalizzata, sembrò abbozzare qualcosa tipo: “io e Alex abbiamo composto una canzone, vorrei che lui la ascoltasse”.
La donna annuì.
Gabe, dolcemente, come un innamorato che terge una lacrima dal volto dell’amore della sua vita, staccò il cavetto dal cellulare di Alex, infilò il jack nel suo.
Premette play.
Una ballata pulita, semplice. Due accordi. Una canzone leggera, che per ora solo loro due al mondo potevano conoscere, cominciò a riversarsi nelle orecchie addormentate di Alex.
L’EEG piano piano cambiò il suo ritmo oscillatorio.
Qualcosa dentro Alex risuonò, una sensazione di calore lo stava richiamando da quel posto freddo e buio, personalissimo.
Non un portone, ma uno spiraglio si aprì, ed una brezza fatta di semplici note sincere, belle, gli indicò la strada.
Una strada verso un qualche tipo di luce, la voce di una sirena colma di pietà cantò per lui non un’elegia ma una serenata scherzosa.
Alex era pronto a rischiare un’altra volta, a scommettere che restare chiusi dentro sé stessi ed in quel suo personalissimo buio era uno spreco. Non ne valeva più la pena.
Riaprì gli occhi.
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Fantastico questo racconto!
grazie, mi fa un enorme piacere che ti sia piaciuto 🙂